a cura di Teresa Rizzoli
EVEREST
B. KORMÁKUR
Si è aperta sul tetto del mondo, a 8.848 metri , la 72a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La pellicola di apertura, ormai di tradizione spettacolare , è assegnata al regista Islandese Baltazar Kormákur che, ispirandosi al racconto Aria Sottile di Jon Krakauer, racconta la storia della spedizione sull’Everest avvenuta nel 1996 in cui persero la vita 8 scalatori. Il film, sebbene senza gran successo di critica ma bensì di pubblico, intreccia intimismo e senso epico in un connubio di immagini 3d che rimandano all’ancestrale tema dell’uomo e della natura in una dicotomica relazione di amore e morte, libertà e paura, grandezza ed impotenza. La grandezza della natura è – o vorrebbe – essere alla base del film e tale grandezza è posta in contrasto con la piccolezza dell’essere umano ,della sua condizione esistenziale: l’uomo come un minuscolo puntino circoscritto immerso in un universo infinito e maestoso capace di suscitare per questo sensazioni sublimi e contrastanti, come il momento dell’arrivo sulla vetta estrema e la paura di essere andati troppo oltre nella sfida. «La montagna ha sempre l’ultima parola» dice uno degli stellari protagonisti di Everest – nel cast Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Keira Knightley, Josh Brolin, Emily Watson e molti altri – e proprio la montagna farà emergere il senso di fratellanza, di cameratismo e comunione all’interno dei due gruppi di scalatori la cui nota competizione viene messa da parte per il raggiungimento dell’obiettivo comune: la vetta. La pellicola, costata la bellezza di 85 milioni di dollari, ha avuto come scenario l’Himalaya, le Dolomiti (Val Senales), gli studi di Cinecittà e quelli di Pinewood; per le riprese dirette sulle cime dell’Everest è stata impiegata una massiccia quantità di droni. Everest apre la Kermesse non senza vena polemica, all’origine stessa del film, ossia lo sfruttamento della montagna il cui inizio simbolico fu proprio la spedizione del 1996 ed in cui le compagnie di scalatori Adventures Consultant e Mountain Madness si contesero il primato della vetta portando con loro anche scalatori non esperti che si rivelarono fatali per le sorti della spedizione. Tecnicamente ben strutturato il film rende perfettamente il ruolo centrale dei campi base, l’importanza dell’acclimatamento ed i rischi di quell’altitudine , in primis l’ipossia. Il film è nelle sale dal 24 settembre.
RABIN, THE LAST DAY
AMOS GITAI
4 novembre 1995. Il Primo Ministro di Israele Yitzhak Rabin organizzò una manifestazione per la pace – primo segno tangibile di una nuova ideologia di incontro e dialogo con i palestinesi – in seguito agli accordi di Oslo. Il 4 Novembre 1995 Rabin venne assassinato da 3 colpi di pallottole per mano di uno studente di legge, Yigal Amir, un fanatico dell’estrema destra la cui mano venne ideologicamente armata dai rabbini che professavano il tradimento di Rabin nei confronti del sionismo e lanciarono su di lui la maledizione di Pulsa Danura. Il regista Amos Gitai, attraverso spezzoni d’epoca, telegiornali e fiction, racconta magistralmente l’ultimo giorno di vita del Primo Ministro e l’inchiesta che seguì la sua morte. Tale inchiesta, volutamente spuria di qualsiasi spettacolarizzazione e polemica , è costituita da una serie di testimonianze volte a ricostruire e indagare le possibili falle nel sistema di sicurezza di quel tragico giorno. Tra le inchieste vi è anche la sconcertante parte dell’interrogatorio rivolto all’assassino, che lungi dal mostrare alcun segno di pentimento, mantenne un sorriso sprezzante a cammeo della sua personale vittoria. L’assassinio di Rabin non fu solo un gesto di enorme gravità per il governo di allora ma, come disse Gitai, segnò il destino di un popolo: «Il destino del paese è cambiato con quelle tre pallottole, Dobbiamo preservare la memoria di un gesto che non è stato sentimentale, ma di odio, l’opposto di quanto auspicava Rabin, che sosteneva l’impossibilità di un ritiro unilaterale da Gaza alla Cisgiordania. Rabin ha ribadito come Israele fosse nato da un progetto politico, preservare gli ebrei dalle persecuzioni, ma anche trovare un modo per rispettare gli altri e Israele è anche la terra dei Palestinesi. I progetti religiosi portano solo alla megalomania e al delirio».
Un film profondo e potente, applauditissimo da critica e pubblico, che con un lungo uso di piani sequenza in crescente tensione, pennella la drammaticità di quei momenti e si fa profezia del futuro; tra le ultime immagini infatti, girate prima delle recenti elezioni, spicca un manifesto di Netanyahu dipinto come despote e acclamatore di popolo lontano dalla pace tanto agognata da Rabin. Come afferma lo stesso regista «La sfida era grande. Il carisma era la sua semplicità, io non volevo trasformarlo in un mito o peggio in un personaggio da fiction. Lui è il buco nero del film Cioè sta dentro ma non si vede».
REMEMBER
ATOM EGOYAN
Remember, ultimo capolavoro di A. Egoyan, è una pellicola che parla di vendetta, di verità, di paradosso, di denuncia, ma soprattutto di memoria. La memoria annientata del protagonista Zev – uno stupefacente Christopher Plummer – affetto da demenza senile ed il cui nome in ebraico significa Lupo. Zev è ricoverato in una lussuosa casa di riposo e insieme alla sua famiglia celebra la settimana di veglia ebraica per la morte della sua adorata moglie Ruth. Zev ogni mattina si sveglia e chiama Ruth. Ogni mattina si sveglia e non ricorda chi sia, la sua storia, la guerra, la deportazione, Auschwitz. Il numero 98814 che ha marchiato sul braccio – che ha in comune con il suo amico Max, anch’egli ricoverato – è tutto ciò che ha per ricordare. Dopo la morte di Ruth, Max induce Zev a compiere la sua promessa di vendetta ed uccidere il caporale nazista Otto Wallish, chiamato da decenni Rudy Kurlander, responsabile dello sterminio delle loro famiglie ad Auschwitz. Accompagnato solo da una lettera di istruzioni di Max, il novantenne Lev inizia il suo lungo viaggio alla ricerca di Rudy Kurlander. La voce della storia e quella della memoria personale si intrecciano in una melodia suonata al pianoforte, una melodia di Wagner. Un ebreo, Zev, che suona Wagner. E ancora tra treni, taxi e autobus si snoda un altro paradosso dipinto magistralmente da Agoyan: un uomo affetto da demenza senile che non riconosce neppure sé stesso ha il compito di riconoscere il volto assassino della sua storia. I Kurlander ancora in vita sono quattro, omonimi. Lev li troverà tutti ma solo l’ultimo si rivelerà essere il suo uomo. «Non avrei mai riconosciuto il tuo volto ma non posso dimenticare la tua voce» gli dice «adesso ricordo». Qui il magistrale colpo di scena, svolta epocale del film e della memoria collettiva che non possiamo svelare. La musica a collante di tutto – perché no, quella di Wagner – che va oltre la memoria personale e parla in un luogo che la scienza non conosce, un luogo in cui ogni vendetta assume le tinte della redenzione.
FRANCOFONIA
ALEKSANDR SOKUROV
Europa , Parigi , Louvre. Alexsandr Sokurov, già protagonista a Venezia’68 con quel Faust che incantò la giuria tanto da conquistare l’ambito Leone d’oro, torna a stupire con il visionario docufilm Francofonia. Un inno all’Europa, un inno alla cultura. Un’ analisi acuta dei perversi rapporti tra il potere e l’arte, di come quest’ ultima rappresenti non solo la storia delle nazioni ma anche quella individuale, riflettendosi tra le tele del Louvre. «Cosa sarebbe la Francia senza il Louvre? Cosa sarebbe la Russia senza l’Hermitage?» Queste le domande che si pone la voce narrante fuori campo di Francofonia, voce che conduce lo spettatore in un viaggio alla ricerca delle origini del palazzo, quasi alle origini della cultura stessa; una focale sulla complessa relazione tra il potere e la conservazione del patrimonio storico – artistico di un popolo in occasione del secondo conflitto mondiale. La pellicola inizia con la descrizione del palazzo in un collage di immagini storiche di repertorio e filmati di finzione in cui si alternano le più diverse tecniche narrative e cinematografiche. Le riprese dell’occupazione nazista si combinano a scene attuali che vedono una nave alla deriva trasportare in un qualche mare Europeo – che non è dato sapere – una serie di conteiner di opere d’arte. La metafora del regista è chiara e sottolinea ancora una volta la scarsa cura riservata alla cultura, lo stato di degrado e abbandono delle opere d’arte la cui importanza storica è pressoché ignorata. «Le idee più belle e quelle più orribili vengono dall’Europa che ormai è alla deriva. E questa civiltà ha accumulato errori su errori- basti pensare oggi alla Crimea e all’Ucraina- che hanno portato una catastrofe morale, un vera tragedia» ribadisce Sokurov. Prime protagoniste di Francofonia sono dunque le opere d’arte, dai leoni assiri alle tele di Botticelli, alternate da personaggi di rilievo come il direttore del Louvre Jacques Jaujard e il conte Franziskus Wolf- Metternich, incaricato di saccheggiare i depositi per Hitler che rinviò la deportazione e fu rimosso nel 1942 . E ancora la voce ed il volto di una Marianna dal cappello frigio che si aggira tra le sale ripetendo la triade Libertè, Ѐgalitè, Fraternitè, intervallata da un buffo Napoleone I che ribadisce bofonchiando la sua centralità nella realizzazione della collezione del Louvre. «Come si può fare una scelta tra vita e arte, quale cosa è più sacra? Voi che cosa scegliereste? Si può fare davvero questa scelta?»