Testo e fotografie di Giulia Pergola
Se si percorre Calle del Forno in direzione della Laguna ci si ritrova catapultati in un mare di luce sulla Riva degli Schiavoni. Questo punto esatto può essere considerato lo spartiacque tra il fastidioso fragore di un turismo sfrenato e superficiale e la quiete luminosa che avvolge quest’ultimo spicchio di città in un’atmosfera ovattata e surreale.
Di giorno Venezia è un enorme parco giochi affollato da turisti grassi e da americani che indossano infradito anche quando imperversano i temporali di metà gennaio. Sono assorti, confusi, estasiati e ti chiedono: “A che ora chiude Venezia?”
Venezia chiude generalmente tra le 20 e le 21, quando i turisti si rintanano nei loro rifugi e gli unici, pochi rumori che si avvertono sono i passi svelti di qualche impavido ritardatario. L’accecante riflesso azzurrato che nelle ore diurne pervade campi e calli lascia spazio alle fioche luci giallognole di qualche lampione che emerge timidamente dal buio.
Venezia muore ogni notte. Avvolge con la sua nebbia impenetrabile ogni nostra paura; ci culla con il ritmo delle piccole onde che si infrangono sotto i nostri passi. Venezia muore e ci vuole portare con sé, seducendoci con la sua apparente immobilità, con i suoi cieli stellati e una precaria promessa di silenzio.
Maschere terrificanti aspettano il loro riscatto dietro le basse vetrine.
Venezia muore ogni notte, ma il mattino seguente fatica a ridestarsi sotto il passo ossessivo di questo fiume di carne. Solo la luce metafisica della domenica mattina le ridona il meritato splendore. Da Sant’Elena si gode in pace di una vista struggente sui piccoli accidenti cittadini. Poi su, verso la bellezza virile dell’Arsenale, immersi nella superstite autenticità di Castello. I più coraggiosi percorreranno il perimetro esterno dove ad eclissare l’anonima Murano ci pensa il Cimitero di San Michele: protetto da una cortina di mattoni e cipressi, galleggia sull’acqua anche lui, specchiandosi con gli altri inquilini della sponda opposta.
Chi sono i vivi? Dove sono? Qui si diventa nebbia e umidità, o in alternativa, se non si cede ad alcun patto, si rimane carne da macello.
Vivere (a) Venezia è una sfida; sopravviverle una ancora più grande. Così come Piazza San Marco sfida la Laguna quando annega silenziosamente nel riflesso delle sue stesse luci durante l’alta marea. O come i merletti di Palazzo Ducale e il campanile di San Giorgio dei Greci sono lì a ricordarci che sono costruiti sul fango e che sul fango galleggiano e nel fango sprofondano. Precari, sospesi, irreali.