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Professionista, poeta, musicista: tre parole che unite non possono far altro se non creare un artista completo che supera di gran lunga, la definizione di cantautore, oggi più che mai abusata. Umberto Maria Giardini, questo il nome dell’artista che ha calcato il palco del Monk Club di Roma lo scorso giovedì sera, proponendo in toto la sua ultima creazione Futuro proximo, inserendo inoltre pezzi già indispensabili come Tutto è Anticristo, Anni Luce, Molteplici Riflessi, Saga, un’eccezionale Quasi Nirvana, accompagnato da Michele Zanni al basso elettrico, Giulio Martinelli ai piatti e da un fenomenale Marco Marzo Caracas alla chitarra elettrica. Un’esibizione impeccabile quella del neo-ri-nato artista che dalla data d’uscita, il 3 febbraio scorso, sta portando in giro per l’italia il suo nuovo album, il terzo dopo aver lasciato lo pseudonimo di Moltheni, capitolo della sua carriera artistica che più d’una volta ha confermato aver chiuso definitivamente.
Dopo Protestantesima, già grande balzo verso una coscienza artistica totalmente nuova, Futuro Proximo rappresenta indubbiamente un ancora più alto livello di raccontarsi e raccontare. Un progetto, questo, nel quale è lampante l’attenzione particolarmente forte riservata alla costruzione di trame musicali profonde e d’impatto, calzanti con testi evocativi e ricercati che mirano non solo a catturare l’anima, ma anche a negare la possibilità, una volta essere stati presi, di potersene liberare (ma, in fondo, qualcuno davvero lo vorrebbe?).
La poesia struggente e malinconica di testi come Mea Culpa e Il Vento e il Cigno, o l’appello alla vita di Dimenticare il Tempo, fusi ad una ricercatezza melodica e sonora ben approfondite, tra ritmiche quasi incredibili per quanto perfettamente in armonia, rendono chiarissimo l’intento di Giardini di trasporre in musica le parole e di entrare a gamba tesa nella mente di chi ascolta.
Una sperimentazione e un progetto più che riusciti, dove troviamo una mente infaticabile sempre pronta a regalare il suo completo splendore tra brillanti intuizioni e profonde riflessioni, legandosi indissolubilmente ad uno studio quasi maniacale della musica e di ogni possibile suono, prendendo sempre più le distanze da quello che è il panorama musicale italiano di oggi, spesso di scarsa qualità.
E allora, sulla scia del sincero “daje Umbè!” che sì levato dalla platea del Monk giovedì sera – in tipico tono romanesco – non resta che rinforzare l’entusiasmo verso una carriera di grande spessore ed estrema brillantezza.