SOLILOQUIO

di Gaia Palombo

Soliloquio è il testo introduttivo di East, progetto fotografico di Benedetta Ristori
, ed è stato pubblicato in versione inglese all’interno del libro East.

Il mio esistere è un eterno ricordare, mani sapienti mi hanno plasmato a questo scopo con il cemento armato, l’acciaio, il granito. Il mio esistere custodisce un monito antico, fiumi di sangue, numerose vite spezzate. Esisto per celebrare ed esprimere il potere di chi mi ha voluto. La brutalità del mio aspetto serve ad aggredire gli occhi per arrivare all’intelletto e permanervi.

Sono figlio della Storia e ne porto tutto il peso.

Ho assecondato – non avevo scelta – il volere di chi ha tentato di cancellarmi perché troppo ingombrante e scomodo era ciò che rappresento. Mi ricopre un manto gelido e bianco, chissà se riuscirà a seppellirmi, consegnandomi all’archeologia.
Somiglio a un futuro passato, ho il fascino rétro di un film di fantascienza della mia epoca. Sono esule dalle mode e dalle emozioni, le simboleggio soltanto.

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Non mi abbandonerà mai questo senso d’incompletezza, quest’incapacità d’essere più di un’utopia. Non posso far altro che guardare le stagioni ripetersi: inverno, primavera, estate, autunno e di nuovo inverno.

Se fosse possibile vivrei in una fotografia scattata con macchina analogica. Il mio mondo avrebbe toni tenui: amerei il grigio, l’azzurro, il bianco e, perché no, il rosa.
Vivrei nella fotografia di chi saprebbe raccontarmi senza dire troppo, scattata a distanza, come se l’obiettivo fosse il buco di una serratura e lo spazio che intercorre un altro mondo ancora, tutto da scoprire.
Non vorrei essere documentato o descritto da un’immagine poiché spesso ho desiderato essere altro: un simbolo non decifrato, una creazione della natura, bella perché inutile.

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Vorrei vivere in una fotografia di viaggio, un viaggio che esclude le geografie, in cui si potrebbe essere dovunque: in una qualsiasi strada, in un qualsiasi hotel.
La fotografia che immagino vagherebbe nel mio Est, ne attraverserebbe i paesaggi senza possederli, li percorrerebbe come se sfogliasse un atlante senza curarsi delle didascalie. Il rullino conterrebbe paesaggi talmente vivi che restituirebbero lo sguardo, senza subirlo.

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L’immagine in cui vivrei racconterebbe un’atmosfera, uno stato d’animo, un bagno al fiume, lo sguardo di un operaio, le saracinesche chiuse su una strada vuota, un palazzo, l’enigmatico cartellone pubblicitario, una carta da parati, il caldo, il freddo, il silenzio, il rumore.
Qui, nel mio Est, il passato vive nelle sopravvivenze disseminate ovunque, eppure le stagioni trascorrono, slittini cavalcati da cappuccetti rossi continuano a scivolare, ancora.

Quanti giorni ho visto succedersi, quante storie consumarsi insieme agli uomini, quante città stanno avanzando a passi da gigante. Io, nella mia immortalità momentanea, mi sento un dio, un narratore onnisciente che guarda la storia ripetersi ciclicamente come una maledizione eterna, nonostante il passato, nonostante me.

Ed ecco che torna l’inverno.

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