SIMBOLI: PIERO DELLA FRANCESCA E LA SACRA CONVERSAZIONE

un testo storico-critico di Francesco Rosetti

Uno dei temi fondamentali della tradizione pittorica figurativa cristiana, soprattutto all’inizio di quell’immane spartiacque culturale che fu il Rinascimento, sicuramente è da ritrovarsi nella dicotomia e nella tensione latente tra la rappresentazione mimeticamente fedele, metafisica, architettonica – tendenzialmente naturalistica per quanto in maniera idealizzante – del visibile e in special modo del corpo umano, e l’insondabilità concettuale, oltre che spirituale, del principio divino. È una tensione già riscontrabile all’alba dell’arte cristiana, ancora priva di una sua tradizione figurativa ad hoc: da un lato l’iconismo greco-romano, per cui natura e anche natura divina potevano essere riprodotte senza imbarazzo, soprattutto mi riferisco alla riproduzione dei corpi, per quanto secondo una misura canonica perfezionata e perfettibile; dall’altro l’aniconismo ebraico che fa coincidere Dio col vuoto, l’ineffabile, l’abisso luminoso. Una dicotomia evidentemente presente anche nella prima riflessione teologica cristiana tesa a conciliare la figura umana del Cristo, tangibile, perfino verace ed idiosincratica a volte, nel suo rigore di pensiero e azione ed elemento divino nello stesso Gesù, carne e spirito, figura e infigurabile, Padre e Figlio. Con la sua fiducia in una sorta di primato – mai assoluto, bisogna sottolineare – dell’occhio e quindi della distanza come costruzione di spazio e narrazione, la pittura rinascimentale, fin dai prodromi tardo-medievali di Giotto, si trova a dover svolgere questo potenziale nodo filosofico: figurazione e figurabilità, cosa, oggetto ed eterno rimando metaforico, forma e infinito. Con la sua Sacra Conversazione [1472 circa], oggi a Brera – uno dei suoi assoluti capolavori tardi, insieme alla quasi coeva Madonna di Senigallia -, Piero della Francesca affronta questo dubbio sia nel complesso allegorico degli oggetti messi in scena, sia, per espansione, nelle scelte formali che informano tutta la sua pittura e che qui arrivano a un equilibrio assoluto.

In primo luogo l’allegoria sacra. Si è spesso detto che, in quanto repertorio di segni che rinviano ognuno ad altro, ogni grande dipinto rinascimentale si possa definire come una sorta di rebus a chiave, tanto verosimile nella costruzione di corpi e spazio – attraverso canone e soprattutto organizzazione prospettica – quanto misterioso, perché la metaforicità dell’oggetto ne rende ambigua anche la forma o almeno la sua stabilità. Nella Sacra Conversazione, in cui è anche fortissima l’influenza su Piero dell’assoluto naturalismo quasi fotografico fiammingo, tutto è verosimiglianza ottica, tutto è rimando mistico a qualcos’altro, per estensione il mistero della Natività. Lo spazio prospettico è rigorosissimo, matematico, tanto da far diventare il dipinto uno spartiacque su cui rifletteranno per cinquant’anni e in vario modo Antonello da Messina (Pala di San Cassiano), Giovanni Bellini (Pala di San Giobbe, Pala di San Zaccaria) e perfino il Raffaello della Scuola di Atene; la chiarezza adamantina dei marmi e della luce su corpi e specchiature marmoree dà a questa costruzione matematica così astratta anche una qualità visiva, materica, abbacinante. Eppure, come riscontrò ai tempi Roberto Longhi, grandissimo chiarificatore più che scopritore della nostra concezione di Piero e della sua opera, abbiamo una primissima lacerazione. Proprio il lavoro su un colore e una luce come quelli fiamminghi, tendenzialmente liquidi, cangianti, atmosferici, porta Piero a dare al suo teorema matematico, alla sua luce meridiana e quasi atemporale, una suggestione naturale, il divenire in un contesto di forme perfette e irraggiungibili. In più la metaforicità di alcuni elementi, come l’abside a forma di conchiglia o l’uovo di struzzo appeso sopra Maria e il Bambino, fa oscillare verso il significante teologico la perfezione di dettato iconografico della Pala.

Andiamo con ordine: se la Sacra Conversazione si codifica come riflessione sulla Natività mistica di Maria, dunque su qualcosa di tanto naturale e viscerale quanto miracoloso poiché parto di una Vergine, allora, a livello allegorico si deve creare, se non una frattura, di certo una dialettica tra visività perfetta e rimando metafisico.
Già la luce, lo abbiamo detto, è sia metafisica, zenitale e assoluta, che fisica e liquida, calda, transeunte, e un simbolo come la conchiglia, ad esempio, con la sua forma concava, raddoppia il ventre di Maria, in forma architettonica. Si crea uno iato, ma anche un collegamento tra il corpo-carne della Donna, sanguigno, e il bianco quasi incongruo del marmo. Maria nuova Venere, dato che la conchiglia tornerà come imprescindibile dettaglio anche ne La Nascita di Venere del Botticelli, ma la metamorfosi del dato biologico della conchiglia in marmo e incavo architettonico raffredda la biologia mariana, se così si vuol dire, in matematica, e, all’opposto, biologizza l’architettura, ne fa Mistero dell’Incarnazione. Freddezza e visceralità.
Ancora più evidente questa dialettica fortissima e sottile in quel concentrato visivo e formale che è l’uovo di struzzo. In primo luogo, l’uovo era uno dei simboli nello stemma dei Montefeltro, committenti dell’opera; in secondo luogo, una leggenda riportava come gli struzzi potessero riprodursi da soli, dunque un riferimento alla Verginità di Maria, carnalità e purezza virginale, che si sostanzia nella purezza formale dell’uovo. Infine risultava evidente il riferimento, usato più volte – ad esempio da Leonardo da Vinci e Correggio – al mito di Leda, fecondata da Zeus sotto forma di Cigno e partoriente due uova coi figli di Zeus, ma anche del marito Tindaro: due immortali (Polluce ed Elena), due mortali (Castore e Clitennestra). Anche qui troviamo presente dunque la dualità tra eterno, immortale, ineffabile, e umano transeunte e finito. Dunque, l’uovo compendia in sé e concentra tutte le ambiguità visive che Piero genialmente rielabora in forma nella Pala. Forma perfetta, liscia conchiusa, bastante a sé stessa, luminosità concentrata e quasi sferica, e allo stesso tempo veicolo di fecondità, di espansione generatrice e possibilmente caotica, divenire plurale, anche se una pluralità formalmente sorvegliatissima come quella di Piero.
Una pluralità che assume anche i tratti di riflessione filosofica sul Mistero: la Sacra Conversazione – nei volti impassibili (non inespressivi, si badi bene) dei Santi, della Vergine, perfino del Bambino assopito – è allo stesso tempo dialogo e silenzio, concentrazione assoluta su sé stessi, spazio esterno descritto e impostato, spazio interno abissale e introvertito.
Nell’uovo dunque si compendiano, dunque, tre elementi del trattato in figura di Piero: formale, metafisico, e mistico-carnale. Formale: l’uovo è oggetto metafisico, bastante a sé stesso, liscio, perlaceo (si è anche pensato, senza però poter dare eccessive prove di ciò, che l’oggetto appeso non fosse un uovo ma una perla, appunto), ma in quanto oggetto portato alla metamorfosi, alla trasformazione, in questo caso alla Generazione, in quanto l’uovo racchiude in piccolo, nel particolare, il generale espanso di tutto il reale nella Pala, luce, colore, materia, divenire, pluralità. Metafisico: in quanto l’uovo nella sua forma perfetta appunto, riproduce l’ordine matematico-geometrico, architettonico e organizzatissimo costruito da Piero, a cui non fa ombra neanche il taglio della Pala, nella parte superiore soprattutto, che ampliava ulteriormente il dato prospettico e fissava, attraverso la mediazione di una specie di arcone, la distanza-membrana tra spazio metafisico di Madonna e santi e spazio umano di chi guardava. Mistico e carnale: in quanto l’uovo, perfettamente liscio e fecondato dalla luce, è sia forma perfetta, non progettata da nessuno, data a priori, originaria, sia ineffabile, assoluta, pura luce, finito ed infinito saldati in potenza. Come potenza generatrice poi, e del tutto libera, diventa anche spazio vitale, raddoppiamento della maternità di Maria su cui pende a piombo in simmetria perfetta. La mistica, al contrario dell’ordine metafisico architettonico, si dà non nella costruzione matematica ma nell’infinito della Luce, di cui la generazione in oggetti e corpi è sia riproduzione caotica, a sua volta infinita nella possibile varietà di enti, sia manifestazione perfettamente coerente. Essere e divenire, corporalità e luce, possono dunque convivere.

 

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