EDITORIALE, MACRO, 2020
di Rossana Macaluso
Nel video Love is a Rose (2003)¹, Sarah Rapson corre lungo la Turbine Hall. Il suo look è ordinario, il suo sguardo concentrato, l’atteggiamento deciso ma paradossalmente casuale. Gli altri visitatori le prestano attenzione, non è certamente usuale correre all’interno di uno spazio espositivo. Il video è in bianco e nero, le riprese, quasi sgranate, sembrano registrate dalla videocamera di sicurezza. La Turbine Hall è grandiosa come sempre, l’artista non vi presta attenzione, si limita a correre. Nessun elemento lascia trapelare il perché della corsa, sicuramente fuori contesto, punk nell’azione e naïf nel risultato d’insieme. «L’universo, come l’infinito, lo vediamo a pezzi», suggerisce Fabio Mauri in Zerbini (2009). Si corre all’interno del museo, rappresentazione parziale del mondo, così come si corre nella vita, talvolta senza chiedersi il perché di tale incessante e sorprendente ritmo.
In Cathcart Hill (2000)², secondo video della serie di cui fa parte Love is a Rose non presente al MACRO ma cui fa puntuale riferimento la didascalia in mostra, Sarah Rapson intraprende la medesima corsa lungo la Turbin Hall con un bambino, elemento che concorre a creare un delicato tono di suspense. È stridente il rapporto tra la sua velocità e il tipico passo lento e concentrato del visitatore. «Who could blame Rapson for meditating on what it means to be “not there”»?³ Il critico Pujan Karambeigi considera l’eredità del lavoro spesso autodistruttivo di Rapson, l’idea di fuggire, intesa come posizione opposta all’equilibrio materico. Approfondendo il lavoro dell’artista, l’attraversamento in velocità è costante anche in un terzo video dal titolo Sufficient Fortune (2002)⁴ «In fact, if Rapson is a painter, it’s her videos that go furthest in their negative capabily. Suf- ficient Fortune (2002), a three-minute looped video, seems to retell the failed liberation narrative of American sculpture in the long 1960s: A tiny silhouette steps warily through a seemingly end-less landscape, never really daring to transgress into the infinite sky above.⁵
Il guardaroba è chiuso, la presenza dei visitatori contingentata, ma la panchina rosa soffice alla vista lo sembra anche al tatto e la si prova. Il sapore dissacrante non manca, una risata riecheggia per tutto il piano terra, è D’io (1971) di Gino De Dominicis⁶ in fondo, non poteva che essere lui. Fuori dalla stanza che ospita Love is a Rose:
«Andai a New York e vissi e lavorai lì come artista. Circa quindici anni fa, un mio amico di New York, a cui forse avevo raccontato un po’ della mia vita, mi chiese come vedevo il mio lavoro in relazione al punk. Questa è stata per me una rivelazione perché ho capito che in realtà l’estetica e l’atteggiamento “punk” sono sempre stati lì – solo che il modo in cui è stato descritto dai media e dagli altri commentatori non corrispondeva affatto a come l’avevo vissuto io. Sono tornata nel Regno Unito nel 2005 e ora vivo in una casa costruita l’anno in cui è nato John Keats. Cito Keats perché mi sembra che tutto questo sia in relazione: un paio d’anni prima di incontrare il gruppo The Clash avrei detto che aveva una grande influenza “romantica” su di me. Ciò che voglio dire è che, dal mio punto di vista, anche il punk è stato un movimento romantico». Sarah Rapson
Resto in bilico tra l’audio di Love is a Rose e la risata irriverente di D’io.
Ma se le note che accompagnano il video sono alt-country (precisamente l’omonima Love is a Rose di Neil Young del 1974), allora la corsa dell’artista assume un senso pieno e sorprendente e si trasforma in ciò che sarebbe utile fare al MACRO, finalmente aperto. Correre nell’ampia hall senza curarsi della presenza delle altre persone. Salire le tortuose scale di Odile Decq (mettendo in atto il suo invito ad avere un atteggiamento attivo all’interno dello spazio)⁷ e da lì salutare gli altri visitatori. Saltellare su tutti i tappeti da ufficio che compongono The Long Hello (2018) di Nicole Wermers senza chiedere il permesso alla guardiania, la quale, invece, lo negherà. Aggiungere una martellata, pennarello su carta, alle Martellate (2020) di Marcello Maloberti. Dare una nuova forma alla polvere di glitter iridescente, creando una nuova scultura Untitled, Blue Glitter di Ann Veronica Janssens, (2015 – in fieri/open data). Rotolarsi nel rosso minimal e accogliente della vasca-auditorium in compagnia dei manichini dell’installazione See how VIPRA is using music to hijack pop culture (2020) di VIPRA. Andare a trovare, ancora una volta e sempre con piacere Rope (2011) di Arthur Duff. Ballare sulle note di Lory D, The Sounds of Rome (1991) lungo il perimetro dello spazio ridefinito dalle gigantesche fotografie di Giovanna Silva, Catabasi (2020), che ritraggono la collezione museale. Addentrarsi nella sala che ospita Il Vuoto (2001) di Emilio Prini, mettersi in posa, dialogare con se stessi e scorgere la reazione della guardiania. Stendere un telo per terra e viaggiare nel tempo e nello spazio di una Roma da riscoprire grazie al prezioso e ricco archivio fotografico di Marcello Salustri. Guardare, rigorosamente insieme agli altri visitatori, Essere Donne (1964) di Cecilia Mangini, film custodito dalla Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.
In copertina: Sarah Rapson, Love is a Rose (2003), frame da video. Museo per l’Immaginazione Preventiva – MACRO, 2020.
NOTE
1. Sarah Rapson, Love is a Rose, 2003, Super 8 riversata su DVD, audio/Super 8 trasferred to DVD, sound, 2 min 10 sec. Daphne Fitzpatrick (Riprese/Camera) & Robert Buck (Montaggio/Editing).
2. Sarah Rapson, Cathcart Hill, 2000, super 8 transferred to DVD, silent, 7:25 min. Un breve estratto è visibile al seguente link https://contemporaryartdaily.com/2019/09/sarah-rapson-at-essex-street/. Ultima consultazione 2/9/2020.
3. Poets and Artfans, Pujan Karambeigi on Sarah at Essex Street; Texte Zur Kunst, New York, December 2019, pg. 172.
4. Sarah Rapson, Sufficient Fortune, 2002, Super 8 transferred to DVD, sound, 2:47 min, looped. Link visibile https://contemporaryartdaily.com/2019/09/sarah-rapson-at-essex-street/. Ultima consultazione 2/9/2020.
5. Ivi. 174.
6. La risata è di Umberto Bignardi, fratello dell’artista Vittorio. L’opera del 1971 è esposta per la prima volta in occasione della personale di Gino De Dominicis alla galleria L’Attico.
7. «I percorsi museali non sono necessariamente orizzontali, ho creato delle pendenze che hanno effetti destabilizzanti e obbligano il visitatore a riferirsi al proprio centro di gravità, al proprio corpo. Un’inversione di tendenza che consente a ciascun visitatore di farsi un’idea personale dello spazio dell’arte. Non volevo ci fosse un atteggiamento passivo.» Intervista a Odile Decq di Paola Pierotti, in Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2010.