di Francesca Attiani
8 Maggio 2016
La vita di una persona oggi, nel 2016, dipende totalmente dalla nazione in cui vive e dal benessere economico che quella gli consente. Pur trovandoci in un secolo ipertecnologico e sociale – fino all’eccesso onirico che questo termine ormai indica – l’individuo sta vivendo un’eclissi sul mondo esterno. In parole povere: nella società odierna, il confronto e il dibattito appaiono talvolta superflui. L’autolegittimazione della propria idea, rafforzata dal percorso solitario che ognuno è costretto ad intraprendere dalla scuola fino al mondo del lavoro, ha portato alla convinzione inconscia che il gruppo non esista, il popolo non esista. Esiste il singolo con il grado di popolarità che gli appartiene.
La generazione di italiani compresa tra i 20 e i 35 anni, ha assorbito dai propri genitori l’importanza data alla scaltrezza nella pubblica ascesa e imparato la diffidenza verso l’altro. Si tratta di una generazione alla quale è stata insegnata l’ostilità. Questo non significa, si badi bene, che questi ragazzi – troppo giovani per decidere ma troppo vecchi per lavorare – siano dei “cattivi ragazzi”. Semplicemente essi non conoscono il valore della somma data da più elementi, comprendono più facilmente il valore del loro coefficiente. Non avvertono la scossa dell’ingiustizia subita dall’altro, non provano rabbia o indignazione alla vista di un sopruso: la società dei multi-media li ha abituati a far scorrere notizie e parole senza trattenerle.
Si deve ammettere che la cornice si adatta ad un quadro generazionale ben più ampio; nell’Italia in cui si fa dell’esistenza un’eterna giovinezza, non stupisce che ai più giovani venga spontaneo l’allineamento all’indifferenza generalista, che essi cerchino la mera ascesa economica senza l’esigenza di un impegno etico.
Sta tutto qui il nocciolo del problema, ammesso che si colga: etica fa rima con solidarietà, con integrazione, con patrimonio pubblico, con equità. Un individuo che non senta come propria la causa di un povero senzatetto, di un rifugiato politico che chiede asilo, di un monumento che crolla per mancata manutenzione o non colga la disparità di ceto come un’ingiustizia, è un individuo che non sarà mai cittadino.
Egli non sarà in grado di riconoscere il bene dal male. Lo diceva proprio Claudio Abbado in riferimento alla cultura: essa è indispensabile per giudicare chi ci governa, per salvare la democrazia. Ma la cultura cos’è se non Etica? Altrimenti si riduce a vuoto elitarismo, effimero passatempo per anziani benestanti, oggetto del banale consumo di massa. Per secoli la cultura è stata riservata a pochi eletti che potevano permettersela, che la gestivano e la indirizzavano. Solo con l’arrivo della Repubblica, in Italia si è compreso il valore laico e pubblico che il patrimonio culturale aveva e fu inserito, negli articoli fondanti la Costituzione, l’articolo 9.
Lo ha sottolineato l’onesto Tomaso Montanari, nella manifestazione Emergenza Cultura del 7 maggio 2016: «la cultura è condizione indispensabile per il pieno sviluppo della persona umana, per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale», essa dovrebbe essere – costituzionalmente – indipendente dal potere politico, gratuita e accessibile ad ogni cittadino.
Oggi si sta assistendo ad una deriva che mercifica la cultura rendendola un prodotto. La colpa è delle lobbies che educano la politica, degli accademici che elargiscono sapere col contagocce.
Ecco, se nella vita di un ragazzo italiano non c’è la cultura (intesa largamente come ricerca e riconoscimento di se stessi, e quindi come impegno civile), è poiché non c’è nemmeno nella vita di molti ragazzi che la cultura l’hanno scelta e studiata nelle università: quelli che non erano in piazza alla manifestazione suddetta, che hanno fatto diventare quella protesta limitata ai funzionari e ai pensionati dei beni culturali, perdendo una preziosa occasione per reclamare un’identità.
Questi giovani professionisti della cultura è ora che si sveglino, che escano dal guscio dell’indifferenza; è ora che maturino l’impegno per le idee in cui credono, per chiedere il diritto al lavoro e l’attuazione dell’articolo 9. Soltanto essi potranno rendere i loro coetanei più liberi.