di Lidia Decandia
Nell’ambito di ARTE e TERRITORIO. Riflessioni sul Terzo Paradiso con Michelangelo Pistoletto, l’incontro coltivare la città. Arte come trasformazione urbana e sociale, ideato da SITI Social Innovation Through Imagination e curato da Stefania Crobe presso l’ISSIS Teodosio Rossi di Priverno, è stato l’occasione per ripensare criticamente l’urbanistica e la sua lettura della realtà.
Nella riflessione collettiva e dal racconto di Lidia Decandia dell’Università di Sassari, emerge un modo altro di fare ricerca urbana e di guardare al territorio, non attraverso la sua rappresentazione ma innescando nuovi sguardi, nuove relazioni, nuove interpretazioni. Un processo che si serve di una razionalità sensibile, di una conoscenza esperienziale e in cui l’arte assume un ruolo centrale in quanto dispositivo immaginifico e agente di cambiamento.
Sono un’urbanista sui generis, ho lavorato tutta la vita per capire perché l’urbanistica, così come oggi viene praticata, non serve e non funziona: la mia ricerca si è mossa indietro nel tempo per cercare di comprendere quali fossero le premesse “infondate ma fondanti” che stanno dietro a questa forma di sapere. Risalendo indietro nel tempo e arrivando, attraverso diversi passaggi, a ricostruire la genealogia di questo pensiero, ho capito che gli urbanisti, nel confondere la realtà con la sua rappresentazione, hanno molto spesso confuso la città con la carta che rappresenta la città e hanno immaginato che possa essere pensata non più come un insieme di luoghi prodotti dalle relazioni, visibili e invisibili, stabilite dinamicamente tra gli uomini e i propri ambienti di vita, ma piuttosto come una combinazione di segni e di forme, da collocare in uno spazio continuo e omogeneo.
In questo senso, nel separare la forma dalla vita, essi hanno dunque cominciato a immaginare che la stessa città, in quanto tale, potesse essere concepita non come un processo – esito di pratiche e relazioni sociali molto complesse, in cui l’arte, i riti, i miti, e tutti i beni simbolici avevano un ruolo fondamentale – ma piuttosto come un disegno, un prodotto di una mente, elaborato in un laboratorio, in uno studio chiuso, separato dalla vita e successivamente trasferito in un unico tempo, con un atto d’imperio, su un territorio immaginato come una superficie vuota, senza vita e senza storia.
A partire dal disagio che ho provato nei confronti di questo sapere, ho cominciato un altro percorso che mi ha portato, sulla scia di alcuni grandi maestri, a ripensare molte delle premesse su cui si fonda l’urbanistica. Per questo ho fondato un piccolo laboratorio che già nel nome traccia le prime orme di un pensiero diverso. Il laboratorio si chiama Matrica laboratorio di fermentazione urbana. Ho scelto questo nome perché, già nel suo significato profondo, contiene una maniera altra di intendere il progetto urbano.
La matrica, infatti, nel dialetto gallurese, che è il dialetto della mia terra (la Gallura, una micro regione della Sardegna) è “la mamma”, la matrice da cui si sviluppa e prende forma il “miciuratu”: così noi chiamiamo lo yogurt. La matrica dunque è un po’ di yogurt che viene prelevato ogni volta dal latte appena quagliato per essere messo da parte e conservato per preparare, una volta finito quello vecchio, il nuovo miciuratu per il giorno dopo. Si tratta in poche parole di un piccolo nucleo di fermenti che, nel mettere in moto un processo di trasformazione, permette al latte di solidificarsi e diventare yogurt.
E’ proprio facendomi alimentare da questa immagine che, anziché continuare a fare i piani urbanistici, ho cominciato a pensare fosse più proficuo, per produrre città, lavorare per mettere in moto dei fermenti creativi sul territorio.
Ho messo in piedi, dunque, questo laboratorio che invece di produrre oggetti, o progetti finiti, vuole configurarsi come una sorta di agente lievitante – una matrica appunto – che lavora per innescare processi di produzione creativa. L’ho immaginato come un luogo in cui raccogliere e condensare, in un ambiente caldo e accogliente, i fermenti presenti sul territorio e dar loro forza; in cui prendersi cura delle piccole piante e dei germogli più fragili, costruire ambiti di sperimentazione e contesti perché tutte queste virtualità latenti possano attualizzarsi e fiorire in forme non precostituite. Un luogo capace di utilizzare il tempo come principale materiale da costruzione, di produrre eventi, attivare potenze creatrici, creare concatenamenti e risonanze attraverso cui far lievitare, circolare e socializzare la produzione di una nuova cultura urbana.
L’idea che è alla base di questo laboratorio è quella di agire “dove la vita già agisce” per contribuire a far emergere qualcosa di nuovo. Un nuovo che non nasce dal niente, ma che si sviluppa a partire da una memoria generatrice, che alimenta e nutre radici che affondano nel profondo, facendo germinare, crescere e sviluppare cose che prima non c’erano, che aiuta a far prender forma ai barlumi che stavano nell’ombra senza riuscire a venire alla luce.
In questo senso il laboratorio non si configura come luogo impaziente e frettoloso dove cercare soluzioni facili, ma piuttosto vuole diventare un contesto fecondo e rassicurante, avvolgente, come una coperta, dove chi lo pratica sa che ci vuole del tempo perché una creazione si sviluppi. Una sorta di placenta d’ombra in cui prendersi cura con pazienza del pensiero fragile, in cui coltivare le diversità e le singolarità dei luoghi e delle persone. L’ho immaginato come un luogo in cui lavorare lontano dalle luci accecanti della visibilità che corrode e semplifica, in quegli spazi intermedi, in quelle radure del pensiero, in quelle pieghe che la luce dei riflettori non illumina e in cui si produce la vita. Un luogo in cui lavorare per disincagliare le abitudini percettive e individuare strade, per riaprire un dialogo con la profondità del mondo, assecondare la “confessione creativa della forma in fieri”, costruire dispositivi di esistenza attraverso cui alimentare la potenza di quelle minuscole forme di vita che, proprio perché abituate a svilupparsi nei territori difficili, sanno riprodursi in forme minute e capillari, aprire crepe e non lasciarsi soffocare da quella terra resa arsa dalla luce troppo forte del pensiero omologante. So che con le piccole azioni che Matrica può mettere in atto sicuramente non si cambierà subito il mondo, ma siccome ho molta fiducia e molta speranza nella vita, credo che sia importante oggi più che mai gettare sementi, diffondere fermenti nelle comunità e sui territori, perché possano contribuire a far emergere, domani, delle creazioni nuove che non ripetano ciò che abbiamo già conosciuto. Ne abbiamo un grande bisogno: dobbiamo immaginare forme nuove di urbanità che superino i tradizionali concetti di città e campagna con cui abbiamo pensato di dividere il territorio.
Ormai non possiamo più parlare di città in termini tradizionali. Le città che conosciamo non sono altro che dei simulacri di città: chi di voi va in Piazza Navona, a Roma, non vede più la vita sociale che ha prodotto la piazza, vede solo una quinta, uno sfondo usato da turisti distratti. La stessa cosa succede a Firenze in Piazza della Signoria, che era il luogo dello scambio vitale della vita urbana. Queste piazze sono anch’esse delle forme che ormai si sono separate dalla vita.
Forse allora la città non è più dove pensiamo che sia, ma questo non ci deve far dire che la città è morta. Ci sono, spesso lontano dai centri delle città antiche, nuovi embrioni di città in formazione che probabilmente daranno vita a nuove forme di urbanità che si genereranno grazie a tutti i fermenti creativi che sono già al lavoro. Come dice Stefania Crobe nella sua tesi di dottorato, il mondo non è solo un mondo in rovina, è un mondo in cantiere.
D’altronde, come la Storia ci insegna, non esiste un’unica idea di città: ogni epoca ha avuto il suo modo di pensare la città. Quando per esempio, dopo la caduta dell’Impero Romano, la città si sgretola, gli embrioni di una nuova vita urbana, vengono ricreati nei monasteri sparsi sul territorio. Oggi come allora la città si evolve nel tempo: prende sembianze nuove.
A questo proposito l’idea di Terzo Paradiso è particolarmente interessante. Proprio perché apre una nuova prospettiva di urbano che supera le stesse tradizionali dicotomie fra città e campagna, lavora per generare nuovi nuclei di urbanità. Anzi, come vediamo in questa esperienza in corso promossa da SITI, i fermenti lanciati da questa idea sono già all’opera e stanno producendo processi sociali diffusi, che mostrano come un’inedita città sia già in formazione.
E’ interessante osservare che questi nuclei di urbanità molto spesso non sono nelle roccaforti delle città antiche, ma nascono proprio nei luoghi marginali, lì dove si lavora per produrre forme nuove dello stare insieme, beni simbolici e immaginari alternativi al pensiero dominante, a quella società del consumo che ci ha insegnato solo a desiderare degli oggetti e delle cose e a non coltivare più la facoltà desiderante.
In un momento in cui questa società del consumo mostra sempre di più le sue crepe, infatti, in tutti questi luoghi, dove l’idea di Terzo Paradiso viene praticata, è proprio questa facoltà desiderante ad essere riattivata. Nel riprendere l’antica funzione dell’arte che non riduceva mai il desiderio al semplice godimento di oggetti, questa idea, con la sua carica e la sua forza immaginativa, rimette in moto il desiderio di qualcosa di importante e di grande: ci spinge ad immaginare un mondo nuovo verso cui tendere. Nel rimettere in moto quei germi che alimenteranno i processi da cui emergeranno le nuove città, ci spinge a tornare a “guardare le stelle”.
Nel costruire beni simbolici alimenta, infatti, la speranza, proponendoci un percorso nuovo. Dove qualcuno si fa ambasciatore del Terzo Paradiso, li sta nascendo la città nuova. Questa città, proprio grazie alle possibilità che oggi offrono le nuove tecnologie, non è più una città concentrata, ma è una città diffusa, interconnessa, fatta di embrioni sparsi per il mondo che interagiscono e collaborano in rete per produrre pensieri vitali e inattesi.
Questa città non ha un centro ma molteplici centri. In ognuno di essi si lavora attivamente, febbrilmente, così come avveniva negli antichi monasteri, per produrre qualcosa di nuovo. In ognuno di questi centri, proprio nel rimettere al centro l’arte e la sua capacità di essere “attivatrice di novità”, si producono pensieri e idee che già stanno contribuendo a costruire un mondo migliore. Forse allora il Terzo Paradiso, non dobbiamo attenderlo, ma è già qui. Dobbiamo solo cominciare a riconoscerlo e contribuire a farlo attecchire, crescere e sviluppare.
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Lidia Decandia è docente di Storia della città e del territorio e Progetto nel contesto sociale presso l’Università degli Studi di Sassari