Come abbiamo visto (e ascoltato) Sanremo
di Jamila Campagna
C’è, segnata e ineluttabile, una parte ideale dove prendere posizione per parlare di Sanremo, una pseudo-etica che vuole suggerire dove andare, cosa dire. Ma occore avere la consapevolezza di una pluralità della visione, necessaria per guardare e vedere una realtà plurale, e questa è l’unica cosa che ho voglia di seguire.
Sanremo 2020 è stato anticipato da un quantità stucchevole di polemiche, di grandi trattati di filosofia e politica elargiti là dove, se mai si volesse cercare qualcosa, dovrebbe cercarsi al massimo – o al minimo – l’arte. Arte vuol dire tante cose, così tante che fa impressione pensarci, perché con l’arte si è davvero detto tutto e si può continuare a dire tutto: dal sacro al profano, dal popolare all’intellettuale, dall’amore all’odio, dalla cura alla violenza. Certo in questo marasma la critica fa il suo lavoro, dato che critica deriva da crisi e crisi deriva dall’antico greco krisis, separare, termine che veniva usato per riferirsi al momento della trebbiatura, quando il grano viene separato dalla paglia e dalla pula.
Se si vuole capire qualcosa del festival di Sanremo – sia in generale che di questa edizione – tocca dunque proprio trebbiarlo. Leggendo in giro nei vari social – che ormai sono la vera giuria demoscopica – ho letto un commento: “Sanremo è diventato una festa di paese”. Ma il punto è che l’Italia intera è una festa di paese e quindi Sanremo, Festival della canzone italiana, non può che essere lo specchio della più piena italianità.
Sanremo in fondo è sempre stato una festa di paese, con più o meno budget a seconda del periodo storico e dell’edizione, ma pur sempre un grande festival fatto in un piccolo – bellissimo – teatro e in una piccola – bellissima – cittadina, che sembra portare il nome di un santo ma invece no, perché Sanremo si scrive tutto attaccato, del santo resta solo il suono. Gli americani hanno il superbowl, gli italiani il Festival di Sanremo – il paragone è autoevidente.
Sanremo è una sconclusionata commedia dell’arte. Come fai a mettere d’accordo tutti? Con la varietà. Sanremo è il più grande varietà della televisione italiana e quest’anno ci riesce benissimo. Fatto per essere visto da casa, in salotto, in cucina, ché l’Ariston è un teatro splendido ma da poche centinaia di posti a sedere. Persino quando uno dice “Gli ospiti di Sanremo”, lo dice dice come se stesse dicendo “Stasera ho amici a cena”. Sanremo è il santo a cui ci si appella per chiedere la grazia, è il festival apotropaico come il carnevale, che per una settimana toglie tutti i pensieri e convince che ciò che conta sopra ogni cosa nell’universo è quel che succede nei metri quadrati di quel palco, tra la platea, l’orchestra e la scenografia, tra le telecamere e lo schermo del televisore.
Amadeus ha fatto delle gaffe da cui forse non è riuscito a uscire, ma in fondo non si può essere diversi da ciò che si è, e lui è sicuramente ancora quel ragazzo che sogna l’America, quello della radio, un conduttore metodico che ha messo in piedi uno spettacolo che ha funzionato, con un doppio palco, quello classico dentro e fuori con il Nutella stage, che sa tanto di Festivalbar. Doveva essere un festival sovranista, sessista, retrogado, invece è stato un festival progressista. Su quel palco si è dato voce, spazio e immagine a situazioni mai approdate all’Ariston. Achille Lauro, che ha ribaltato la frase fascista del Me ne frego en travesti, tirando dentro persino San Francesco, e Junior Cally, senza maschera a bastonare politica, ipocrisia e populismo, sono stati i due poli di questo festival. In mezzo, nella scossa elettrica tra il catodo e l’anodo, tutto il resto: l’ironia ragazzina di Fiorello, Tiziano Ferro che canta Almeno tu nell’universo, le canzoni di riscatto di Levante e Zarrillo, la carica rock di Piero Pelù, Elodie con testo di Mahmood, i Pinguini Tattici Nucleari (che in collaborazione con WWF hanno adottato 100 pinguini imperatore), lo swing di Diodato con Nina Zilli, la retorica latte e biscotti di alcuni monologhi, la storia della canzone italiana tra Al Bano e Romina, Ricchi e Poveri, Massimo Ranieri, Sabrina Salerno che ha sempre 30 anni, il racconto di vita struggente di Rula Jebral, la disabilità tradotta in arte senza patetismi e nel trionfo della dignità della persona, la Bibbia aperta in due da Roberto Benigni, il respiro internazionale di Ghali, Elettra Lamborghini che poco importa se ha poca voce – in duetto con Myss Keta che fa la parte di Celentano – perché quel che conta, per una volta, sono davvero i contenuti sopra la forma. Un Sanremo che, con la sua scaletta impazzita e le sue lungaggini, è stato divertente come la gita scolastica del liceo. Un Sanremo un po’ anarchico, in cui ognuno ha potuto dire la sua, purché lo facesse cantando.