di Valeria Martella
Parlare di Blue è come maneggiare una fragilissima forma di cristallo. Si potrebbe ipoteticamente descriverne la superficie, che definiremmo blu e monocroma, ma non riusciremmo a dire con certezza cosa ci sia all’interno e, ovviamente, non oseremmo distruggerla per mera curiosità. Si prosegue dunque per ipotesi.
Blue è l’ultimo film di Derek Jarman – regista dell’intricato Wittgenstein (1993) e dell’affascinante Caravaggio (1986) – che mostra per un tempo di 79 minuti un fotogramma blu accompagnato da rumori di vita quotidiana, suoni, canzoni, poesie. Sarebbe tuttavia semplicistico definire IL colore come un blu qualsiasi, il primo che vi capiti sotto gli occhi o che vi salti in mente. IL blu di cui si parla è l’International Klein Blue, di Yves Klein.
Jarman era sempre stato affascinato dall’artista, tanto che già nel pieno della sua attività di regista aveva in mente la realizzazione di un film che parlasse del colore simbolo di Klein. Tuttavia il progetto non riscosse l’interesse dei produttori e rimase relegato in un angolo.
Fu la malattia logorante di Jarman, l’AIDS, a dare lo stimolo necessario, nei primi anni novanta, per realizzare l’audiovisivo (termine forse più appropriato di “film”) che omaggiasse l’artista e la famosa colorazione blu oltremare, miscelandoli con un racconto della propria vita. L’esistenza dell’io narrante è segnata da un’ingente quantità di medicinali da ingoiare e da ripetute visite mediche, le quali non fanno che sottolineare la sua condizione precaria non tanto per la morte, quanto per la vita da malato inserito in società.
Il nesso tra la malattia e il colore non è intuitivo, Jarman stava vivendo il decorso dell’AIDS subendo una grave perdita quale quella della vista, a causa del progressivo degradarsi della rètina, e la scelta di una schermata monocolore era diventata ormai quasi una necessità oltre che un omaggio. Nonostante ciò, non era assolutamente scopo del regista fare di un testo filmico una ricerca di compassione o un melodramma.
L’International Klein Blue era esattamente ciò che lui non vedeva e quello che vedeva ogni giorno. Fissare il fotogramma blu per 79 minuti si potrebbe dire soporifero. Jarman stesso affermava: «l’HIV non è drammatico, è noioso»1.
Di rassicurante, converranno in molti, l’International Klein Blue nel contesto filmico ha ben poco. Jarman trovava nel blu una scappatoia verso la libertà; per lo spettatore – nonostante si conoscano le proprietà stabilizzanti del colore in alcuni istanti – complessivamente la sensazione è quella di simulare la vita del regista da un punto di vista interno, vedendo ciò che vede, percependo lo schermo come un sipario blu che non si apre mai, che dà una sensazione di immediata rivelazione e che non rivela niente.
I suoni del quieto vivere (se così si può dire), accompagnano la non-visione del film come un muro di sostegno dietro ad un dipinto di Klein. Non sono il fulcro dell’attenzione, nonostante la vista dello spettatore non sia coinvolta nella sua totalità e i monologhi e il sonoro dovrebbero emergere. Per lo più i monologhi risaltano come un flusso di parole dettate dal feeling blue, dall’angoscia, dal senso di vuoto che si manifesta anche e soprattutto nel frequente ripetersi dei nomi degli amici ormai morti ma che sfocia in un’ amara rassegnazione.
Il protagonista è il blu, non i personaggi che intervengono a turno nel film per intonare cantilene o per recitare versi, seppur bellissimi. Il colore è l’immagine, la sensazione, la vita, lo strazio, la noia. È ciò che precede il Nero che per Derek Jarman arriverà non molto tempo dopo l’uscita del film.
«You say to the boy open your eyes
When he opens his eyes and sees the light
You make him cry out. Saying
O Blue come forth
O Blue arise
O Blue ascend
O Blue come in».
1 Gianmarco Del Re, Derek Jarman, Il Castoro Cinema n. 183, Editrice Il Castoro, 2005, p. 93.