OFFICINA PASOLINI

a cura di Vera Viselli

Pier Paolo Pasolini era un performer. O, per meglio dire, un artista performativo. È questo il senso della mostra OFFICINA Pasolini, organizzata in occasione del quarantesimo anniversario dalla morte dello scrittore, poeta, regista ed intellettuale italiano.

Dopo la grande mostra romana Pasolini Roma che analizzava il rapporto – così drammaticamente profondo – che legava Pasolini alla capitale, alle sue borgate ed alle sue spiagge, quella bolognese ripercorre le origini del poeta, partendo da quella città che lo ha visto crescere e formarsi, e tornare nel 1955 per creare Officina, insieme a Roversi e Longhi. La voglia è quella di cercare di raggruppare l’intera opera artistica pasoliniana, senza che le immagini contino più delle parole o viceversa, lasciando lo stesso spazio ad ogni ambito artistico da lui toccato ed affrontato, creando così un magma continuativo ed indissolubile.

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Questa sua completezza venne ricordata da Moravia al funerale, durante la sua orazione funebre: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. […] Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. […] Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono no? Pasolini fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al suo grande mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo. Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio ne Il fiore delle mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo mondo e alla cultura del Terzo mondo. Infine, abbiamo perduto un saggista. […] Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese».

OFFICINA Pasolini affronta quindi il percorso pasoliniano attraverso 9 aree tematiche.

GLI ANNI DI FORMAZIONE. GLI STUDI CON ROBERTO LONGHI
Si inizia con il periodo di formazione a Bologna, negli anni di Roberto Longhi: oltre a molti documenti originali che tracciano il percorso scolastico di Pasolini, si possono ammirare i disegni che il giovane Pasolini faceva di quel maestro che «ci faceva vedere le immagini e sembrava di vedere un film». Inoltre, è possibile visionare un inedito proveniente dalla collezione privata di Bernardo Bertolucci, le fotografie scattate da Dino Pedriali mentre lo stesso Pasolini lavorava ai ritratti di Longhi ed il manoscritto autografo di Che cos’è un maestro.

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Pier Paolo Pasolini sul set di Medea, 1969. © Mario Tursi

I MITI
È il clou della mostra: lo spazio espositivo centrale viene trasfigurato nella navata di una cattedrale romanica, le cui vetrate vengono sostituite da installazioni multimediali e i cui protagonisti sono i Miti che hanno caratterizzato l’opera di Pasolini:

La madre: Susanna Colussi, fonte d’ispirazione poetica e cinematografica. Spesso viene descritta come una madre-bambina, legata così tanto al figlio da formare con esso un’unica identità.

Il Friuli: se Bologna (città del padre) rappresenta per Pasolini la cultura borghese, il Friuli (che ha dato i natali alla madre) è invece il luogo di un incontro poetico.

Cristo: per il cinema, Pasolini usa la figura di Cristo come modello per i suoi personaggi di borgata. Accattone, l’Ettore Garofalo di Mamma Roma ed il Giovanni Stracci de La ricotta sono tutti, letteralmente, dei Cristi di borgata, e muoiono anche come tali, ripetendo cioè dei gesti cristologici.

La tragedia classica: fin da giovane Pasolini mostra una certa attenzione per il teatro tragico antico ed il mito greco. Edipo all’alba è un abbozzo teatrale che rivede la storia di Edipo alla luce dell’amore incestuoso di Ismene per suo fratello Eteocle. Nel 1960 traduce, per la messa in scena a Siracusa, l’Orestiade di Eschilo, su esplicita richiesta di Vittorio Gassman. È poi la volta di Medea (1969): con essa, Pasolini sposta l’attenzione sul mondo arcaico della maga e sul conflitto che la oppone al mondo tecnologico di Teseo. Sempre del ’69 è Appunti per un’Orestiade africana: un’allegoria del passaggio da un mondo arcaico privo di regole ad un moderno mondo della Legge razionale.

Le borgate: arrivato a Roma nel 1950 con la madre, dopo le umiliazioni subìte a Casarsa, le borgate – con la loro lingua – rappresentano per Pasolini il vero nuovo mondo, non dettato da una scelta ma da «una specie di coazione del destino». Il romanesco parlato da quel popolo che sopravviveva nelle baracche (in condizioni quasi arcaiche, se non primitive), con quel suo umorismo cinico ed allegro, fagocitò talmente tanto Pasolini da essere evocato in racconti e poesie e da esser reso protagonista di ben due romanzi, Ragazzi di vita e Una vita violenta.

I popoli perduti: il Terzo Mondo rappresentava, per Pasolini, l’idea – utopica – di un mondo intatto nella sua cultura popolare, in netto contrasto con l’universo piccolo-borghese occidentale. Ma è anche la dimensione in cui ambienta la sua reinvenzione delle fiabe de Le Mille e una notte, immaginando una sensualità ed una carnalità libere da qualsiasi oppressione religiosa.

ICONE
La sezione Pasolini e il suo tempo vede protagonista la trasfigurazione delle icone (dalla Marilyn della Rabbia al Totò di Uccellacci e uccellini) e l’attacco all’omologazione.
Questi personaggi acquistano, attraverso la prospettiva espressiva di Pasolini, un nuovo valore: la Monroe diviene l’immagine di una bellezza antica e genuina, che viene resa inautentica dalla società capitalistica; la Callas, nelle vesti di Medea, non è più una diva teatrale ma una donna profondamente umiliata e privata della sua mitica voce; Totò diventa invece un filosofo bonario, un padre furbo e tenero ed un sottoproletario fantasioso che è riuscito a sopravvivere alla trasformazione del mondo che lo circonda, in cui riesce (comicamente) a muoversi, sempre con astuzia e malinconia.

CRITICA DELLA MODERNITÀ
Già in pieni anni ’60 Pasolini affermava l’avvento di una Nuova Preistoria, ma è dal 1973 che la sua critica alla modernità esplode in tutta la sua forza, attraverso gli articoli apparsi sul Corriere della Sera (e riprodotti integralmente in mostra).

«L’Italia contadina e paleoindustriale non c’è più e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione» si legge ne “Gli italiani non sono più quelli”, del 10 giugno 1974.  I lineamenti piccolo-borghesi, prodotti da edonismo e massificazione, sono diventati la sola ed unica identità dominante nell’Italia degli anni ’70, e Pasolini definisce questo fenomeno una «catastrofe senza precedenti», tanto da analizzarlo in modo continuo, cercando di sviscerarne ogni risvolto antropologico.

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Pier Paolo Pasolini sul set di Salo’ o le 120 giornate di Sodoma,1975 © Deborah Beer/Cinemazero

LABORATORIO PETROLIO
Il testamento di Pasolini – come da lui stesso affermato – è contenuto in Petrolio, opera rimasta chiusa nel cassetto per 20 anni e pubblicata solo nel 1992. Il progetto originario prevedeva il romanzo come opera non finita (una previsione al quadrato, vista la morte prematura del suo autore). Il fotografo Dino Pedriali venne scelto da Pasolini nell’ottobre del 1975 per una serie di fotografie (esposte in mostra) scattate tra Roma, Sabaudia e Chia, che ritraevano lo stesso Pasolini; questi ritratti erano probabilmente destinati, in parte, ad essere inclusi nell’iconografia di Petrolio, ed erano così intrisi di bellezza ed intensità da divenire vere e proprie immagini-simbolo del poeta.

GIRONE DELLE VISIONI
Questo girone ospita gli inferni del Decameron, dei Racconti di Canterbury, di Salò e di Petrolio. Nei suoi ultimi anni Pasolini adotta spesso l’immagine dell’Inferno come dimensione allucinata che rimanda a degli orrori reali; la dimensione onirica risulta fondamentale come chiave evocativa delle dinamiche più oscure. Come scriveva egli stesso in Porcile, «chissà mai qual è la verità dei sogni oltre a quella di renderci ansiosi della verità».

GIRONE DELLA BORGHESIA
La protagonista dell’intera opera pasoliniana, sia attraverso la sua presenza e sia attraverso la sua assenza, è la borghesia, che viene intesa non solo come una categoria sociologica ma come un qualcosa di più ampio. Per Pasolini, la borghesia è la classe che impone i suoi valori ed i suoi comportamenti in modo irreversibile dagli anni ’50 in poi, e ce lo mostra prima con Teorema (film dedicato al nucleo famigliare, che si autodistrugge non appena al suo interno si inserisce un elemento anomalo) e poi con Salò, il film dove il potere borghese (impersonificato dai quattro Signori scellerati) diviene pura anarchia, in quanto manipola e distrugge a suo piacimento, senza aver bisogno di rispettare alcuna regola.

GIRONE DELLA TELEVISIONE
«Alla televisione tutto è realizzato nel modo più piatto, approssimativo, naturalista e senza nessuna preoccupazione della forma. La lunga frequentazione della televisione ha fatto perdere al pubblico innocente, normale, il senso della forma, dell’opera tecnicamente impeccabile. […] La mia è una reazione violenta contro la cultura ufficiale: la cultura, si potrebbe dire, della televisione. Contro questa cultura di massa che ci aggredisce ogni giorno e che è sempre più irreale. La televisione è irrealtà. Tutto ciò che passa attraverso il video non ha più rapporti con ciò che noi viviamo» (Venezia, settembre 1973).

La prima esperienza di Pasolini con la televisione risale al 1966, quando si trova costretto a rimanere a casa per via di un’ulcera, e dopo una serie di visioni di spettacoli tv arriva ad elaborare alcune considerazioni, tra le quali la mancanza di vera realtà nell’espressione televisiva e la riduzione delle facce di politici ed intellettuali a mere maschere.

PASOLINI DOPO PASOLINI
La fine del percorso della mostra coincide con la fine stessa di Pasolini, ovvero la sua morte. Ci sono i telegiornali del 2 novembre 1975, come pure le testimonianze di artisti che nei 40 anni trascorsi dalla sua morte non hanno potuto prescindere dall’eredità che ha lasciato (un esempio è il quadro di Schifano ispirato al volto di Pasolini o il disegno fatto dal regista Kiarostami).

Non è presente nella mostra ma non può non essere citata la lettera scritta da Oriana Fallaci il 16 novembre 1975:

«Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. E io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne a ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spegnere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. […] Lasciasti New York deluso perché non c’eri morto, perché ti eri affacciato sulla voragine e non vi eri caduto. Le notti trascorse in cerca del suicidio t’avevano reso soltanto le guance più scarne, lo sguardo più febbricitante. Mi sento, dicesti, come un bambino cui è stata offerta una torta e poi gliel’hanno sottratta mentre stava per addentarla. Sì, avresti dovuto bere mille altre amarezze prima di trovare qualcuno che ti facesse il dono di ucciderti, regalarti una morte coerente dopo una vita coerente. […] Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu. […] Sullo schermo della televisione apparve Giuseppe Vannucchi e dette la notizia ufficiale. Apparvero anche i due popolani che avevano scoperto il tuo corpo. Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio d’immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo. Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce s’è spenta?».

OFFICINA Pasolini
18 dicembre 2015 – 28 marzo 2016
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Mostra promossa e realizzata dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Istituzione Bologna Musei|MAMbo
A cura di: Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi, Gian Luca Farinelli con la collaborazione di Antonio Bigini, Rosaria Gioiaprogetto.
Illuminazione di Luca Bigazzi
Per informazioni: www.cinetecadibologna.it – www.mambo-bologna.org

In copertina: Pier Paolo Pasolini sul set di La ricotta, episodio del film “Ro.Go.Pa.G”, 1963. © Paul Ronald. Collezione privata.

 

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