un racconto di Daniele Fiacco
Non volevo incontrare nessuno. Avevo solo due ore per non sentirmi più infelice. Il mare. Un pomeriggio. Come un guscio di tellina che prima di spezzarsi sugli scogli, spinto da un’onda impietosa, faceva ancora in tempo a inglobare la sabbia che lo avrebbe portato giù. Così mi sentivo. Ma avevo ancora voglia di sorridere. Inquinare il mare, immergendomi. Poi separarmi in scaglie sempre più piccole fino a non restare. Questo era preferibile. Invece continuavo a tenermi in faccia l’attesa di quel sorriso. Avevo ventisei anni. I miei coetanei recitavano la felicità a cui si sentivano obbligati. Io ero ancora vivo, anche se mezzo morto. Consapevole di quanto pregiudizio ci fosse nelle idee ricevute su quella felicità e il suo opposto che tanto parevano allontanarci. Ma che te ne fai della vita, per quanto malconcia, se tutto intorno a te sembra morto e basta? E quanta di quella morte dovevo staccarmi di dosso per ridurmi alla parte migliore di me? Ed è poi la parte migliore, quella che non cede? Annegare? Farmi prendere dal mare? Incagliarmi a un’onda senza troppi scrupoli e via. Non ero umano più di quanto non lo fosse il mare, che si muoveva indifferente a se stesso. E dopotutto, io non volevo nemmeno un aldilà. E il suicidio mi sembrava più osceno dello sforzo di vivere. Nell’incertezza sul da farsi mi rotolavo sull’asciugamano, come tutti, e ogni posizione era scomoda. Prendevo conchiglie e le avvicinavo all’orecchio. Rumore, solo rumore. Il rumore in testa che avrei voluto lasciare lì.
Un gruppetto di ragazzini mi passava davanti. Avranno avuto tredici, quattordici anni, quell’età in cui certi ne dimostrano di più, mentre altri continuano a sembrare bambini. Avevano tra le mani delle reti per pescare. Vuote. Saltellavano sulle onde, sollevavano schizzi d’acqua. Si dicevano cose che non riuscivo a capire, con quelle voci stonate da ragazzini ancora informi. Uno di loro mi ha guardato. Mi sono girato di schiena, sdraiandomi a pancia in sotto. Contavo gli obesi. Poi le famiglie. Le coppie. I cani. Via via, fino a non vedere più la differenza tra un ombrellone e l’altro, tutti mescolati laggiù in un impasto di arcobaleno. I ragazzini si allontanavano, sollevandomi non poco. Dopo una manciata imprecisata di minuti sentivo le loro voci stridule riavvicinarsi. Uno di loro, lo stesso di prima, mi ha guardato di nuovo. Sembrava non ascoltare quello che dicevano i suoi amici, sembrava isolarsi. Sollevava la testa e tendeva il collo verso l’alto, con orgoglio, quasi per mettere in evidenza la disparità degli altri. Inclinava l’angolo sinistro della bocca per accennare un sorriso. Verso di me. Quanto bastava per farmi capire che lo stava facendo. Poi si sono allontanati. Poi sono ritornati. Un avanti e indietro che mi infastidiva. Lui sembrava il più grande di tutti. Mentre guardava verso di me, alzava un poco il braccio per mettere in mostra la rete che si portava dietro, perché era l’unico ad aver pescato qualcosa. Ho strizzato un po’ gli occhi per vedere meglio, nella rete c’era un pesciolino nero. Quel sorriso fiero, poi. Cosa avrà pensato incontrando i miei occhi di adulto prossimo a evaporare? Avrà pensato che anch’io avevo un sorriso pronto a incontrare il suo? Avrà pensato che quella mia indifferenza fosse ammirazione segreta per lui che aveva pescato un pesciolino mentre gli altri niente? Non mi interessava sapere dove andassero, allontanandosi. Lui invece era ritornato, senza reti. Aveva un costume nero a pantaloncino, abbastanza largo, da cui spuntavano le gambe coperte di peli ancora delicati. Iniziava a fare giochi a riva, andava incontro alle onde, le abbracciava, ci si buttava di testa. Voleva mostrarsi esperto, temerario. Si girava di scatto, per vedere se lo guardavo. Io mi giravo dall’altra parte. Poi l’ho guardato negli occhi. Era simpatico. Ma ho distolto subito lo sguardo, volevo apparire disattento. Gli amici rumorosi si stavano riavvicinando e lui se n’è andato verso di loro. Ho preso altre conchiglie, le ho messe in fila, erano piene di rumore. Il ragazzino è ritornato. Ricominciava a giocare con le onde, faceva finta di cadere, si rialzava, si toglieva dai fianchi le alghe. Voleva farmi vedere quanto era bravo a fare acrobazie insieme a quel mare che gli scompigliava i capelli, facendolo assomigliare a un gabbiano pronto a sfrecciare verso il cielo. Si avvicinava al bagnasciuga, restava in piedi con le spalle verso di me e il petto verso l’orizzonte. Aveva il fiatone. Il viso era proprio quello di un bambino, liscio come una perla, con il naso un po’ scottato, ma le spalle si stavano allargando, la muscolatura iniziava a delinearsi, la forma di un ragazzo premeva nelle gambe, nei piedi sproporzionati, negli occhi. Il mare gli aveva sollevato l’orlo del pantaloncino. Si vedeva il segno bianco contro la pelle liscia leggermente brunita. Si è voltato ancora. Non l’ho guardato di proposito. Iniziava a imbarazzarmi. Seccato, si è girato verso l’orizzonte, faceva finta di fare qualcosa. Ma non se ne andava. Sollevava un po’ il costume facendo finta di metterlo a posto. Sorrideva, sorrideva sempre, era così bello che sapesse ancora farlo. Mi stava chiedendo di avvicinarmi? Di far finta che fossi io quello che lo guardava? Quando avevo la sua età tutti gli adulti mi sembravano irraggiungibili. Inventavo forme, le chiamavo solitudine. Pensavo di essere il solo capace di innamorarsi. Ma anche tutti gli altri sentimenti mi sembravano belli. Sono ancora belli. E in quel momento mi trovavo dalla parte dell’adulto, mentre quel ragazzino faceva le stesse cose che facevo io quando ero come lui. Restavo seduto sul mio asciugamano. Non mi muovevo. Guardavo anch’io l’orizzonte. Avrei voluto fargli sapere che avevo capito. Quando si guardava intorno cambiava espressione, come se non avesse voluto nessuno lì a cercarlo. Nessuno che lo vedesse, nessuno
che lo rimproverasse, nessuno che lo facesse sentire a disagio nell’angolino scintillante di quel mare. Voleva guardare qualcuno, essere reciprocato. Fare un esperimento di volontà per vincere la timidezza. Tentare. Tentare sul mare in cui tutti ci sentivamo liberi. Ma non mi sarei mai avvicinato. Lo vedevo raggiungere un punto a riva in cui l’acqua era molto bassa, si era sdraiato lì, sui gomiti lisci come l’interno di una conchiglia, a pancia in su. Il costume nero si gonfiava con l’aria spinta giù da un’onda. Lui si passava la mano sul
piccolo ingombro che conteneva e si voltava appena per farlo vedere, nell’acqua che si andava raffreddando. Dov’erano i suoi amici? In quale punto imprecisato della spiaggia lo aspettavano? Iniziavo a vedere un po’ di dispiacere sul suo viso ostinato. Non sapeva come fare per farmi alzare da
quell’asciugamano. Stavano passando due signore tra me e lui. Le ha guardate storto e si è subito girato. Poi le signore hanno guardato me. Non voleva nessuno tra i nostri sguardi consapevoli e consenzienti. Sguardi solidali tra sconosciuti. Avrei voluto tanto alzarmi, dirgli che anch’io ero come lui. E aggiungere che tutti ci siamo sentiti allo stesso modo, anche se non tutti lo ricordavano. Il sole mi aveva scottato. Sentivo la luce morente pungermi ancora come uno spillo. Volevo alzarmi per tuffarmi nel mare, togliermi di dosso quel sudore ventiseienne così diverso da quello del ragazzino, ma lui stava lì. Tremava. Le labbra si erano fatte viola e aveva la pelle d’oca. Non aveva il coraggio di alzarsi e venire a stringermi la mano. E se fosse stato solo un brutto scherzo, se gli avessi fatto un sorriso senza illuderlo troppo, senza invitarlo neanche in un abbraccio, se mi fossi avvicinato a chiedergli il nome, accarezzandogli la nuca come avrei fatto con un cane, se avessi fatto questo e lui si fosse messo a gridare? A chi avrebbero creduto? Eravamo tutti troppo marci per ammettere una vicinanza senza conseguenze? Qual era il prezzo dell’innocenza per un adulto che restava lontano da un ragazzino nella speranza che non si indispettisse, nella speranza che non si sentisse rifiutato? Avrei voluto dirgli che al suo posto avrei fatto la stessa cosa, ma che altro non poteva esserci perché era troppa la tenerezza, troppo il dispiacere per la sua solitudine uguale alla mia, ma spostata un po’ di traverso nell’illusione di un tempo che ci divide, che poi è lo stesso che viviamo. Un corpo che si ripeteva di pelle in pelle. Ma non mi fidavo, per questo non mi sono avvicinato. Eppure non avrei fatto altro: avrei preso la conchiglia più bella tra quelle che avevo messo in fila, gliel’avrei offerta in dono, l’avrei accostata al suo orecchio e gli avrei chiesto: “E tu, tu riesci a sentirlo Beethoven?”.
I suoi amici si stavano avvicinando di nuovo, si vedevano punti agitati e rumorosi in lontananza. Si sentivano le urla, si vedevano le reti sbattute nell’aria. “Andiamo?”, ha gridato uno di loro. Lo avesse almeno chiamato per nome, almeno lo avrei saputo e avrei potuto salutarlo da lontano anch’io, salutare da lontano quello che ero e salutarmi coi suoi occhi, come se avessi incontrato anche me, alla sua età e adesso. Ma io non volevo incontrare più nessuno, così mi ero raccontato. Poi, andandosene finalmente, mi ha guardato un’ultima volta, mi ha sorriso un’ultima volta. E anche io, per la prima volta dopo tanto, ho sorriso a tutti e due.
In copertina: Daniele Fiacco, Ritratto di Clément, 2019