di Francesca Attiani
Mettere in scena la Storia, quella con la maiuscola, che rappresenta il bagaglio dei nostri presupposti moderni, è ambizione altissima. Farlo attraverso una contestualizzazione esatta che cali lo spettatore fuori dal proprio tempo è ancora più complesso e richiede uno studio filologico puntuale. Mario Martone lo ha fatto portando a teatro un secolo, con le sue idee, o meglio, le sue ideologie: Morte di Danton è l’affresco di un temperamento che, culminato con la sommossa rivoluzionaria, sta discendendo davanti ai nostri occhi verso una pericolosa voragine. Georg Büchner fornisce a Martone la lente dalla quale guardare i fatti, che diventano pian piano anche i nostri.
I drappi rossi dei sipari fluttuanti, svelano i vari livelli di sotterfugio e di sommossa – pubblica e privata – alludendo fin da subito al colore del sacrificio umano che i protagonisti sono disposti a compiere di sé e degli altri. Il palcoscenico diventa allusione dell’uomo, nelle sue differenti dinamiche sociali: l’oratore menzognero nella pubblica piazza, amico dei compagni che gridano a gran voce il proprio ideale nelle assemblee, oppure il marito/amante che declama versi poetici nel buio della propria stanza, da ultimo l’uomo solo e fragile che cerca una risposta metafisica alla propria sorte.
Tutti questi piani di analisi – probabilmente di autoanalisi ante litteram – che si aprono nella medesima figura, consentono a quest’opera di non essere vincolata ad alcun tempo storico, infatti attraverso di essa si intende porre il lettore/spettatore nella posizione di giudice e insieme di condannato, perché proprio questi due registri oscillano vorticosamente nella messa in scena: ma, questo sentirsi continuamente salvi ma carnefici o condannati ma senza un Dio salvifico, è presupposto fondante del tema filosofico che è il senso di questo dramma. Morte di Danton è una fredda e diretta domanda a se stessi: si può in nome della Rivoluzione erigersi a imponitore di morte, e se sì, può esistere una condotta morale in presenza di un fervido ateismo? Robespierre, gelido sanguinario, si porrà in questo racconto al cospetto di Cristo, gareggiando con lui sulla soglia del sacrificio. Martone ha la capacità di rendere Robespierre quasi una figura sacra, un sacerdote di morte. Danton è per Martone, invece, un uomo carnale dedito al vizio, proprio quello che Robespierre intende purificare con il sangue. L’unica persona in grado di dare una risposta a questo quesito esistenziale sarà il filosofo americano Paine, in prigione ma libero più dei liberi.
Il coinvolgimento dello spettatore da parte di Martone avviene grazie a numerosi espedienti: il primo è fornito dal testo, il quale colloca questo dibattito non all’interno di un salotto borghese, bensì nel cuore della Rivoluzione e dunque nelle piazze, nelle assemblee cittadine. In secondo luogo Mario Martone pone i suoi attori in dialogo con la platea che entra a far parte di comizi colmi di folle urlanti, di tribunali dalle porte aperte, e dunque lo spettatore è considerato “Cittadino della Rivoluzione” e come tale complice della deriva arbitraria del tumulto in baccano, del socialismo in populismo. Questo richiamo alla partecipazione attiva dell’astante è risvegliata dalle luci che si accendono in platea, quasi a illuminarne la coscienza, mentre il popolo francese/napoletano invade lo spazio con sfrontatezza irriguardosa.
Questo spaccato di strada, apparentemente di contorno, ha il merito di invocare le “magnifiche sorti” leopardiane alludendo così al fallimento della Rivoluzione come forma di miglioramento sociale, e avvicinando Büchner al pessimismo di Leopardi, qui maggiormente amaro perché totale (comprende infatti anche la letteratura e le arti), pessimismo della rappresentazione di ciò che siamo e di ciò che crediamo di essere (il riferimento alle maschere che non si gettano dopo la messa in scena accennato come in un pettegolezzo da piazza, ha origine nelle Operette Morali leopardiane, non a caso). Ma la vicinanza a Leopardi e a tutta una filosofia della natura per Büchner è soprattutto in un moto dello spirito che Danton accoglie fino all’ultimo epilogo: accettata l’impossibilità del progresso e l’inutilità apparente della Rivoluzione, prende atto che non si può non battersi per un’illusione, che la chimera della felicità rappresenta per l’uomo la sola possibilità di contemplarla.
La regia di Mario Martone ha la pregiatissima capacità di sorvolare sui destini tragici dell’uomo senza macchiarsi di retorica: il momento brutale della ghigliottina, ad esempio, è smorzato dalla tragica processione dei condannati a cui viene tagliato il colletto della camicia bianca, e in quel gesto li si priva di ogni autorevolezza, tale che arrivati al patibolo non occorre più mostrare la fredda lama; anche perché Danton muore in realtà qualche sera prima quando sogna, in preda ad un delirio di terrore, la sua fine ed il vento che passa tra i tanti drappi rossi svela il suo senso di colpa.