di Rossana Macaluso
“Cosa propone Gea Casolaro?” Ogni qual volta è prevista una mostra o il risultato di un progetto dell’artista Gea Casolaro, ci si interroga, con curiosità, su cosa proporrà. La sua è una produzione realizzata tramite differenti medium, fatta di sguardi e riflessioni su immagini e immaginari, sul nostro presente e sulla storia, sulla società e le sue trasformazioni. “Cosa propone”, diventa “Cosa ha guardato” e spesso l’oggetto guardato rimanda ad un presente e ad uno spazio, aperto nei significati ma autosufficiente. «Quando l’arte interiorizza la sua storia, quando essa diventa autocosciente della propria storia, come di fatto è accaduto nel nostro tempo, in maniera tale che la consapevolezza della propria storia diventa parte della propria natura, allora è forse inevitabile che l’arte debba infine trasformarsi in filosofia. E nel momento in cui ciò accade l’arte giunge ad una fine, in un senso importante»[1]. Il senso di tale riflessione diventa maggiormente significativo se ci muoviamo entro due parametri, quello dello spazio a noi più o meno riconoscibile e quello della sua dimensione storica. Questi due elementi si incrociano nella ricerca artistica dello sguardo, chiave di lettura esplicita per alcuni suoi recenti lavori.
Cosa ti ha portato a Io visto da te, io visto da me. Tu visto da te, tu visto da me (2018) e Con lo sguardo dell’altro (2017)?
Questi due progetti di cui mi chiedi sono molto diversi tra loro: l’uso di termini legati alla vista e allo sguardo è spesso ricorrente nei titoli dei miei lavori: Oltre lo sguardo (1998-2004), Parallel visions (2001-2002), Doppio sguardo (2003), Due Palermo, uno sguardo (2003-2006), Regards croisés (2010), Sharing gazes (2013), per citarne alcuni; ma naturalmente anche quelli che non utilizzano nel titolo questa parola, come ad esempio At the same time dans le même paysage (1997) o Autoritratti infiniti (1999), riflettono sul principio del vedere poiché la vista, tra i cinque sensi, è quello che noi umani utilizziamo maggiormente, dal primo apprendimento, all’idea stessa che ci costruiamo della realtà.
Per ritornare alla tua domanda: il primo progetto a cui fai riferimento è un workshop, e la mostra risultante, realizzato con un gruppo di studentesse del corso di Arte per la terapia, diretto da Nicoletta Agostini con il coordinamento di Maria Jacomini dell’Accademia di Belle Arti di Roma, presso il Centro diurno di Via Monte Tomatico della ASL ROMA 1. Per diverse settimane si è trattato di lavorare in coppie (una studentessa e una o un frequentatore del Centro), sull’idea di autoritratto non convenzionale. In ogni coppia di lavoro, doveva rappresentare sé e l’altro/a attraverso oggetti di uso quotidiano, animali, opere d’arte, monumenti che poi ognuno/a, singolarmente, andava a comporre su un unico foglio, cercando di creare così un’armonia tra l’immagine di sé e l’immagine restituita dall’altro/a. Il senso era dunque di visualizzarsi attraverso delle metafore, uscendo quindi da sé, e anche di accettare l’immagine che gli altri hanno di noi, aprendoci allo sguardo altrui e al mondo esterno, cosa non sempre evidente per chi ha problemi psichiatrici, e non solo.
Con lo sguardo dell’altro, invece, è una mostra personale che ho realizzato al Macro, Museo di Arte contemporanea di Roma. Nelle cinque sale del primo piano del museo, ho costruito un percorso attraverso una serie di miei lavori recenti e non, incentrato sull’importanza dello spostamento del punto di vista nella costruzione della visione del mondo: su come dislocare il nostro consueto modo di guardare la società, su come utilizzare le conoscenze e le esperienze altrui per accrescere e arricchire la nostra conoscenza soggettiva della realtà.
Con Maybe in Sarajevo (1998-1999), l’incertezza del forse diventa messa in discussione di un immaginario creato anche mediaticamente dalle note vicende belliche; con SEND ME A POSTCARD. A site, aside, inside, in between, away (2013), esegui un ritratto delle complesse sfaccettature del Lussemburgo; con Still here (2009-2013), porti il tuo studio d’artista parigino negli spazi a parte della The Gallery Apart e la relativa ricerca condotta nella capitale francese sul ricordo di luoghi vissuti attraverso la riproduzione cinematografica. Con la mostra diffusa Nel corpo della città, è la volta di Roma. Qual è questa volta la chiave di lettura? Come si è sviluppata la ricerca e il progetto della mostra diffusa?
Ho lavorato prendendo spunto da Roma anche in passato, essendo Roma la città in cui ho abitato più a lungo. Penso sia importante capire che quando si fa un lavoro specifico su un luogo, o su un archivio, si usa quella sintesi per raccontare anche tematiche più vaste, esistenziali, che riguardano tutti gli esseri umani, ovunque si trovino. Faccio l’esempio di Visioni dell’EUR (2002-2006) che nasce da un confronto tra la visione di quel quartiere – e dell’idea di modernità che rappresentava – che ne avevano gli abitanti negli anni ’60 e di come, invece, lo percepivano e utilizzavano i registi cinematografici in quello stesso decennio. Ovviamente il lavoro non si riferisce solo al boom economico posteriore alla seconda guerra mondiale: lo stesso principio di ambivalenza nella lettura della realtà è applicabile al cosiddetto fenomeno della globalizzazione e alla conseguente trasformazione degli equilibri socio-economici internazionali che ha iniziato a svilupparsi negli anni in cui quella mia serie prendeva forma. Come in molti altri miei lavori, c’è un invito a cambiare la propria prospettiva, a guardare l’esistenza con una visione più ampia, considerando anche la vita altrui.
Per tornare a Nel corpo della città: ogni progetto legato a una situazione ha una sua specificità, connessa alla storia di quel luogo e alle cose che, all’interno di quella storia, mi colpiscono maggiormente. In questo caso la peculiarità nasce dal committente che è il Museo Laboratorio della Mente della ASL ROMA 1, che mi ha chiamata espressamente per lavorare su un gruppo di archivi e biblioteche di Roma con delle caratteristiche molto diverse tra loro: l’Archivio del Santa Maria della Pietà (ex manicomio della provincia di Roma) e la sua Biblioteca Cencelli, la Biblioteca Lancisiana dell’Ospedale Santo Spirito, la Biblioteca Sportiva Nazionale del Coni e l’Archivio Storico Capitolino. È chiaro che si tratta di una quantità di materiale enorme, su cui si potrebbe lavorare per anni, ma avendo invece a disposizione solo alcuni mesi per la ricerca e la realizzazione del lavoro e della mostra, è necessario fare delle scremature anche un po’ radicali, per non rischiare di perdersi in centinaia di anni di storia che ogni archivio e biblioteca contiene. In più c’era una linea tematica già decisa in partenza dal Museo e dai curatori della mostra: Nel corpo della città: quindi è chiaro che un solco era già tracciato in anticipo, anche se la mia semina darà sicuramente un risultato molto personale.
Quanto e come George Perec ha influenzato la tua ricerca?
George Perec, come molti altri scrittori che mi hanno influenzata nella mia giovinezza (Rodari, Arpino, Calvino, Pirandello, Queneau, per citarne alcuni) mi ha mostrato la realtà nascosta sotto la realtà. Tutti questi scrittori parlano della realtà manifesta, così come di ciò che, pur non vedendosi, c’è. Parlano di storia e di immagini, di storie e di immaginazione. Raccontano di attraversamenti, non solo di luoghi, ma soprattutto di noi stessi. Prendiamo un loro libro trovandoci in un punto del nostro percorso, e quando lo posiamo, non siamo più lì, ma altrove rispetto ai noi stessi di prima: in una nuova dimensione.
E poi per Perec, così come per gli altri membri dell’OuLiPo, era fondamentale la contrainte: la costrizione, il vincolo ovvero l’obbligo autoimposto a dover seguire determinate regole o schemi da rispettare per avanzare nel proprio lavoro. A me piace molto avere un committente, che è una sorta di contrainte oltre che, naturalmente, un’occasione molto stimolante di dialogo, un principio fondamentale nello sviluppo di ogni mio lavoro. Per questo Nel corpo della città, che prevedeva sin dall’inizio la messa in dialogo di materiali e voci diverse, è stato per me un progetto molto stimolante.
«Viviamo nello spazio, in questi spazi, in questa città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe essere effettivamente evidente, non è scontato. È reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare. Ci si può perfino lasciare andare a sognare. Niente, per esempio ci impedisce, di concepire qualcosa che non sia né città né campagna (né periferia), o dei corridoi di metropolitana che siano al tempo stesso giardini. Niente ci impedisce di immaginare un metrò in aperta campagna (ho persino visto una pubblicità su questo tema – cosa dire? – era una campagna pubblicitaria). In ogni caso, è certo che in un’epoca probabilmente troppo lontana perché qualcuno di noi ne abbia conservato un ricordo un minimo preciso, non c’era niente di tutto questo: né corridoi, né giardini, né città, né campagne. Il problema non è tanto sapere come ci siamo arrivati, quanto semplicemente riconoscere che ci siamo arrivati, che ci siamo: non c’è uno spazio, e uno di questi pezzi è un corridoio della metropolitana, e un altro di questi pezzi è un giardino pubblico; un altro (qui stiamo entrando in spazi molto particolareggiati), originariamente di grandezza piuttosto modesta, ha raggiunto dimensioni piuttosto colossali ed è divenuto Parigi, mentre uno spazio vicino, non necessariamente meno dotato in partenza, si è accontentato di diventare Pontoise.»[2]
Cosa c’è oltre Pontoise?
Oltre Pontoise, oltre Parigi, oltre Bangkok, oltre Roma, oltre il tavolo nella casa nel quartiere della città da cui scrivo, oltre al pianeta sui cui mi trovo, c’è tutto il resto dell’universo senza tempo in cui siamo immersi e galleggiamo e viaggiamo e ci ripetiamo e ci riscopriamo e ci reinventiamo.
«Il suo corpo era diviso: da una parte, il corpo vero e proprio – la sua pelle, i suoi occhi – tenero, caldo, e, dall’altra, la sua voce, breve, rattenuta, soggetta ad eccessi di lontananza, la sua voce, che non dava ciò che dava il suo corpo. O anche: da una parte, il suo corpo morbido, tiepido, languido al punto giusto, con una sottile peluria, finalmente goffo, e, dall’altra, la sua voce – la voce, sempre la voce – sonora, nitida, mondana, ecc.»[3]
Com’è il corpo di Roma? Cosa anima Roma?
Roma ha un corpo molto antico e come la maggior parte delle persone anziane, si sposta debolmente: ha talmente tanti strati e sedimenti e storie e vite di esseri umani che l’hanno attraversata per millenni, che il peso di tutto ciò la fa avanzare con fatica. È il suo fascino e la sua maledizione.
Qual è il tuo rapporto con la complessità? In particolare, per la mostra diffusa Nel corpo della città, percorri differenti luoghi: Museo Laboratorio della Mente, Biblioteca Cencelli e Biblioteca Lancisiana (facenti parte dell’ASL Roma 1), Biblioteca Sportiva Nazionale del Coni e Biblioteca Romana dell’Archivio Storico Capitolino (afferente alla Sovrintendenza Capitolina di Roma Capitale). La complessità, per te, ha a che fare con la riproducibilità? Penso al capitolo che Alberto Sobrero dedica a Benjamin: la città invisibile: «Un capitolo centrale di quello che avrebbe potuto essere il libro definitivo di Benjamin sull’idea di città avrebbe riguardato certo questo argomento: come progressivamente la realtà della città si sottragga allo sguardo. Come la città sparisca: non è solo il cittadino a “perdersi”, è la città che svanisce, che si rende “indifferente”, che si “dissolve” cinematograficamente. Troppo piena di strade, di piazze, di case, di tempi e di spazi, troppo carica di persone e di situazioni; lo sguardo non può seguirla, non può farsi curioso di tutti i suoi aspetti, non può sperare di indagare più di tanto.»[4]
Penso che sulla riproducibilità bisognerebbe fare un discorso a parte: dal tempo di Benjamin, e con la diffusione del digitale, c’è stata un’accelerazione esponenziale in questo senso. Per la città, così come per gli archivi, ma come per la vita in genere, penso che si tratti sempre di fare una selezione: di scegliere dei percorsi che ci attraggono e incuriosiscono, restando sempre, mentre li percorriamo, con lo sguardo vivo e la mente aperta come i flâneurs, pronti a lasciarci distrarre e deviare per fare continuamente nuove scoperte.
Oltre la mostra diffusa con i materiali d’archivio, hai realizzato un’installazione video sulla quale innegabilmente ruota molta curiosità. Cosa puoi anticipare?
Il video La costruzione, con il montaggio di Silvia Di Domenico e le musiche di Giulia Francavilla, cresce attraverso un accostamento poetico dei materiali dei diversi archivi coinvolti: dai vetrini di tessuti biologici alle foto-scansioni di sezioni di organi, dalle antiche mappe di Roma e del Lazio alle foto dei cantieri degli impianti sportivi delle Olimpiadi del 1960 ai disegni dei pazienti del Santa Maria della Pietà, i materiali sono assemblati per raccontare il dipanarsi di una storia più grande: ogni singolo archivio, così come ogni singola mente (che possiamo considerare un archivio personale) contiene un mondo. Forse, un universo.
NEL CORPO DELLA CITTÀ
Percorsi di inclusione sociale e trasformazioni urbane
Mostra diffusa di Gea Casolaro
a cura di Vera Fusco, Francesca Gollo, Marco Salustri
5 Ottobre/31 Ottobre 2018 Ingresso gratuito
Opening 5 Ottobre, ore 18 Museo Laboratorio della Mente
Museo Laboratorio della Mente, Padiglione 6, Piazza Santa Maria della Pietà 5, Roma
Archivio Storico Capitolino, Piazza dell’Orologio 4, Roma
Biblioteca Sportiva Nazionale del CONI, Largo Giulio Onesti 1, Roma
Un’iniziativa
ASL ROMA 1
CONI – SCUOLA DELLO SPORT
SOVRAINTENDENZA CAPITOLINA AI BENI CULTURALI – ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO
Con il patrocinio di
ICOM – International Council of Museums
Info: www.museodellamente.it
Gea Casolaro, da venticinque anni indaga attraverso la fotografia, il video e la scrittura, l’istallazione, il nostro rapporto con le immagini, l’attualità, la società, la storia. La sua ricerca mira ad attivare un dialogo permanente tra le esperienze e le persone, per ampliare la capacità di analisi e di conoscenza della realtà attraverso i punti di vista altrui. Tra i suoi progetti degli ultimi anni ricordiamo Still here sul rapporto tra cinema e vita quotidiana nella capitale francese dove Gea Casolaro è stata in residenza nove mesi nel 2009, presso la Cité Internationale des Arts per trasferirsi poi stabilmente. Nel 2011, in occasione della LIV Biennale di Venezia, Padiglione italiano nel mondo, ha esposto presso l’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo una serie di opere sul tema delle frontiere. Nel 2012 ha partecipato al Festival Images di Vevey, in Svizzera. Nel 2013 Gea Casolaro è stata in residenza per tre mesi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba in Etiopia, realizzando un lavoro collettivo con un gruppo di studenti della Alle School of Fine Arts and Design dal titolo Sharing Gazes. Nello stesso anno ha realizzato due missioni fotografiche commissionate: la prima nel Principato di Monaco (il lavoro Forever Monte-Carlo è stato esposto presso The Forbes Galleries a New York); la seconda in Lussemburgo al CNA Centre nationale de l’audiovisuel, dove ha realizzato un ritratto delle complesse sfaccettature del Paese attraverso una mostra di mail-art-relazionale, intitolata Send Me a Postcard, a site aside, inside, in between, away. Nel 2015 è stata in residenza per oltre due mesi presso l’Istituto Italiano di Cultura di Lima per un progetto di arte partecipativa ispirato al lavoro del fotografo andino Martìn Chambi, realizzato con un gruppo di fotografi professionisti e amatoriali presso il Centro de la Imagen. Nel 2016 è stata l’artista vincitrice del bando di concorso del Comune di Casale Monferrato per la realizzazione di un monumento di arte pubblica per il “Parco Eternot”, nato sul sito dove sorgeva la tristemente famosa fabbrica Eternit. È del 2017 la sua grande personale Con lo sguardo dell’altro, presso il Macro, Museo di arte contemporanea di Roma. www.thegalleryapart.it/casolaro/casolaro-eng.aspx
[1] A. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Palermo, 2016. Ed. Or. The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, 1986.
[2] G. Perec, Specie di Spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, pp 11-12. Ed. or. Espèces d’espaces, Editions Galilée, 1974.
[3] R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 2001 p. 61. Ed. or. Fragments d’un discours amoureux, Èditions du Seuil, 1977.
[4] A. Sobrero, Antropologia della città, Carocci editore, Urbino, 2007, p. 142.