MUSEI E SOCIAL MEDIA? #SOCIALMUSEUMS

di Francesca Attiani

Il 24 novembre 2016, l’Associazione Civita ha presentato a Roma il suo X rapporto d’indagine sull’utilizzo dei social media da parte dei musei, con una serie di interventi mirati ad analizzare la situazione comunicativa italiana,

l’iniziativa ha permesso di affrontare il tema anche attraverso l’uso di un live tweeting, e ponendo dunque le basi ad un dialogo aperto: attraverso l’hashtag #socialmuseums numerosi contenuti del workshop sono stati divulgati su Twitter in tempo reale. Questa pratica, sempre più in uso durante iniziative culturali, sembra essere il vero manifesto pratico del tema affrontato.

Il Volume. La prefazione e la conclusione, affidata ai curatori dello studio (De Biase – Valentino), aprono piccoli spiragli di riflessione, il più potente: “possono i social media essere considerati davvero strumenti di democratizzazione culturale o piuttosto finiscono per generare nuove gerarchie?”, da questa domanda si deve necessariamente partire nell’analisi che coinvolge le istituzioni museali e i luoghi di interesse culturale, poiché non può esistere una comunicazione social senza una strategia a monte che ne imposti l’assetto adeguandolo al digital open space.

Segue una spiegazione teorica da parte di Valentino di quelli che sono i social media oggi, e del loro senso specifico, dimostrando con alcune percentuali la prevedibile supremazia degli Stati Uniti nell’uso delle piattaforme digitali, affidando alle note preziose riflessioni che illuminano la problematica della scarsa professionalità del personale museale a cui viene affidato il compito di gestire la comunicazione social.

A Valeri è affidata un’ulteriore spiegazione dei social media presenti nel mercato, che muove i primi passi di focalizzazione nella sfera del marketing culturale. Misiti e Mannucci ci spiegano le metodologie utilizzate per questo studio, entrando nel merito grazie a delle grafiche molto efficaci (che forse potevano/dovevano occupare la gran parte del volume): da questo studio emerge l’uso preponderante di YouTube e Facebook – da parte del campione analizzato – ai quali seguono Google+, Instagram e Twitter; il mondo degli artisti viene prediletto rispetto a quello museale e teatrale nel seguito social (la personalizzazione è ovviamente motivo di empatia). Da sottolineare come il giudizio sulla presenza dei settori culturali sui social media sia in larga parte ritenuto “buono” o “sufficiente”, quasi mancando di fiducia nelle possibilità o meglio accontentandosi. A questo studio va unito quello (di Mannucci – Sciucchini) sull’utilizzo di alcuni musei nel confronto, distruttivo, Italia – resto del mondo.

Fuggetta ci riporta al valore della cultura che, nel digitale, diventa “prodotto” e quindi ripensando a quanto le tecnologie digitali condizionino lo sviluppo culturale: non viene messa in discussione la missione culturale in sé, ma, cambiando i bisogni, emergono nuove aspettative e nuove opportunità che debbono rientrare obbligatoriamente nell’offerta che l’ente vorrà supportare. In linea con questo tema è la riflessione di Albanese che ammette come sia impossibile fare comunicazione social senza fare marketing, e che il vantaggio sta proprio nel saper sfruttare questo dualismo. Sempre in quest’ultimo saggio, 10 suggerimenti pratici per un direttore di museo che voglia capire e usare i social media: finalmente uno slancio pratico, una sveglia che può servire a tutti, una proposta attuabile in un mare di “teoricismi”.
In seguito un riferimento all’utilizzo del crowdfunding per la cultura nel testo di Pais – Valeri, una delucidazione delle modalità ma anche un monito: si tratta di un mezzo che non può essere adottato senza che vi siano le condizioni ambientali-strategiche necessarie all’applicazione del progetto per cui si fa appello, ammettendo la necessità di esperti in marketing e in comunicazione per una campagna efficace.

Cassese riporta l’esempio del mondo del cinema, che ha scelto di essere presente sui social media senza stravolgere i propri assetti; Tonelli invece riporta l’esempio di Artribune, una piattaforma editoriale che deve ai social media gran parte del suo successo.

I social media possono estendere il raggio d’azione di eventi e reti culturali, ci dice Pastore, sono numerosi i casi positivi, ma senza dimenticare che vanno affidati a figure formate appositamente. I casi positivi sono anche quelli che creano una rete di contenuti digitali attraverso il coinvolgimento di semplici utenti: Misiti ne cita alcuni come #invasionidigitali (il pubblico che diventa soggetto attivo, riportando talvolta all’attenzione luoghi in ombra, di cui parlano approfonditamente Bonacini – Marcucci – Todisco in un altro articolo del volume), Twitteratura (divulgazione letteraria), Se i quadri potessero parlare (un fortunato gioco a tema artistico), Amici del Museo (gruppi di utenti che valorizzano spesso siti minori), il FAI. A questi casi va aggiunto #svegliamuseo che, come dice De Gottardo, ha avuto ed ha il merito di accendere i riflettori sul mancato coinvolgimento dei luoghi della cultura nei social media, aprendo al dibattito.

Il workshop. Partendo da questi presupposti i relatori hanno affrontato le tematiche d’interesse: il primo saluto, spettante al vice presidente Emanuele, ha sottolineato come i social media possano ridurre il divario tra visitatore ed ente, accompagnando nella visita senza inibire. Valentino ha ripercorso la ricerca effettuata per Civita, mostrando come internet tutto, e di rimando anche i social, venga utilizzato ancora da una fetta esigua di italiani; con l’auspicio che si possa un giorno arrivare alla creazione di un “museo relazionale”, capace di creare relazioni con differenti pubblici adattandone il contenuto.

Di Comin la riflessione sulla necessità che i medi e piccoli musei facciamo una rete social, pensandola come risorsa.

È seguito l’intervento di Spatafora che ha illustrato come il museo Salinas di Palermo sia stato “aperto per vocazione” nel periodo di chiusura al pubblico attraverso i canali social, innescando così un riavvicinamento del pubblico che si è sentito parte nella riapertura, anche grazie all’uso di un linguaggio semplice e ironico. Un altro caso interessante è quello, esposto da Anniboletti, sulla comunicazione che si sta facendo in questo anno per rilanciare Pompei: l’uso dello stotytelling, del “com’era com’è”, di contenuti creativi e virtual tour hanno fatto di questo piano editoriale un esempio promettente.

Il terzo caso quello del MAXXI di Roma dove, a detta di Cupellini, i social media sono stati fondamentali per il coinvolgimento diretto del pubblico in performance.

Chieffi ha riportato l’attenzione, invece, sulla sfera toccata dai social media: quella emozionale, e questa non esiste senza immagini e video che rendono possibile il coinvolgimento emotivo e quindi anche quello di mercato. Un’azienda che voglia sfruttare appieno i social dovrà tenere conto della cultura e della professionalità utile a instaurare con l’utente un rapporto di fiducia.

A Mandarano l’onere di fornire i numeri dell’utilizzo social che riguardano i musei e i luoghi culturali: dati negativi oggettivi per l’Italia, motivati dalla mancanza di uno staff qualificato specifico per l’attuazione di una strategia social condivisa da tutto il personale museale; ma per fare ciò c’è bisogno di maggiori investimenti finanziari e di analizzare i target di riferimento.

La conclusione di questa giornata sembra ricollegarsi a quella del convegno “Comunicare il Museo Oggi” del 18 e 19 febbraio 2016: servono definizioni nuove per professioni nuove, il digitale per la cultura non può essere frutto di improvvisazione, ma deve unire i requisiti storico-artistici con quelli comunicativi.

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