intervista di Jamila Campagna
Abbiamo incontrato Mirkoeilcane lo scorso febbraio al Mondadori Book Store di Roma, dove presentava il suo nuovo album Secondo Me. Qualche domanda per un discorso vivido e scorrevole, tra social media, immigrazione e responsabilità, nel pensiero di un giovane talento del cantautorato italiano.
Mirkoeilcane. Da giugno del 2017 vinci il premio Musicultura e inizia una nuova fase del tuo percorso che arriva fino al successo di Sanremo. Ce ne vuoi parlare?
Quella di Musicultura è stata una bella scintilla, l’occasione per riconoscere a me stesso che tutto l’impegno che ci ho messo sin da bambino è servito a qualcosa, perché se hanno deciso di farmi vincere significa che stavo lavorando bene. Da lì ho preso fiducia e ho deciso di provare a fare Sanremo. Sanremo può sembrare un mondo molto lontano da quello di un cantautore, ma poi ho preso Stiamo tutti bene una canzone che avevo già pronta nel mio nuovo album e ho pensato che era il giusto compromesso tra Sanremo e il mio modo di essere. E così ci ho provato!
Sicuramente Stiamo tutti bene è una canzone complessa che inizialmente non ha trovato l’apprezzamento della cosiddetta giuria demoscopica, però alla fine hai raggiunto il secondo posto e hai ricevuto molti premi: il premio Bardotti per il Miglior Testo, il premio della critica Mia Martini, il premio Enzo Jannacci, la targa PMI. Ti aspettavi questo ribaltamento?
No, non me lo aspettavo. Ero certo che stat non è una canzone da primo ascolto. Aveva bisogno sicuramente di un secondo ascolto che poi le ha consentito di essere vincitrice di tutti quei premi. La mia paura era che la canzone venisse fraintesa… Ma alla fine tante persone sia per strada che nei social, anche bambini, mi raccontano che la canzone è arrivata dove io volevo che arrivasse, consentendomi di portare un tema scomodo su quel palco.
In seno alla tradizione della canzone cantautoriale italiana ti sei fatto portatore di un racconto di dolore, una canzone complessa, ma anche molto diretta, parla dell’immigrazione utilizzando la situazione del barcone per raccontare un po’ tutte le migrazioni. Perché hai scelto di condurre la narrazione attraverso le parole di un bambino?
Sai io non credo di averlo scelto. E’ stata la prima cosa che mi è venuta in mente quando è arrivata l’idea di questa canzone, nella mia testa era raccontata da questo bambino. La prima frase che ho scritto era “Ciao mi chiamo Mario e ho sette anni”, da lì è venuto il resto. Forse la cosa ha aiutato a rendere la canzone più ingenua, più pulita, più diretta. Volevo parlare di umanità… chi può farlo meglio di un bambino? Ad un bambino si dà ascolto in ogni caso e ci si riesce ad immedesimare nelle sue parole.
Ci vuoi parlare del tuo ultimo disco Secondo Me?
Secondo me è il mio secondo disco, è una raccolta dei miei punti di vista. Faccio parte dei problemi che canto. Ci sono alcune canzoni che parlano dei social e di smartphone come spunto per parlare di superficialità ma io sono il primo che sta lì a scrivere sui social, non mi metto sul piedistallo del professore. Ogni tanto mi sposto un po’ e vedo le cose da un altro punto di vista, ci ironizzo sopra. Sicuramente il filo conduttore dell’album è l’ironia, il sarcasmo, il fatto che per parlare di cose serie ci si scherzi su, con una risata che in effetti è una risata amara, che secondo me è quella che più di tutto insegna e fa capire qual è il senso del discorso.
Pensi che nel 2018 ci sia ancora una responsabilità cantautoriale?
Certo! Un cantautore deve avere il coraggio di parlare di tutte quelle cose di cui nessuno vuole parlare, altrimenti, se scriviamo tutti solo le canzoni dell’amore e dell’estate, il gioco non vale la candela.