MACRO ASILO // IL MUSEO GIARDINO // INTERVISTA AL DIRETTORE GIORGIO DE FINIS

a cura di Jamila Campagna

MACRO Asilo. Il Museo ospitale, il Museo giardino, il Museo partecipativo. Per “asilo”, il dizionario Treccani riporta: dal lat. asylum, gr. ἄσυλον (ἱερόν), propr. «(tempio) dove non c’è diritto di cattura (σύλη)». E così è stato questo museo sperimentale: zona franca per le arti, per l’espressione del pensiero, per lo scambio culturale, per la ricerca interdisciplinare. Il museo ideato da Giorgio de Finis, direttore artistico del MACRO ASILO, nei 15 mesi di attività si è configurato come un nuovo modo di pensare il museo, che è soprattutto un nuovo modo di fare il museo, riposizionando il concetto di istituzione culturale, a porte aperte, rendendo reale la visionarietà: il museo come spazio di incontro e lifelong learning; il museo come una grande lezione di arte, storia, antropologia, urbanistica. Quest’intervista a Giorgio de Finis è una pagina di queste lezioni, nel mezzo tra tutte le cose realizzate e tutte le cose che rimaranno in sospeso.


Il progetto del MACRO Asilo nasce come ripensamento della proposta museale e del ruolo dello spettatore nel museo. Un museo contemporaneo che deve stare al passo con il bombardamento comunicativo, qualcosa di più del museo contemplativo e anche della edizione aggiornata del gabinetto delle meraviglie. In questi 15 mesi cosa puoi dire di aver raccolto rispetto alle aspettative iniziali?

Il progetto prevedeva il raggiungimento di una serie di obiettivi, come sempre accade quando penso un progetto a tavolino. Quando immagino un progetto, lo faccio in solitudine. Come tutti gli artisti, cancello la realtà e la ridisegno alla mia maniera. Se l’opera finale è un quadro, allora andrà bene così com’è, che piaccia o meno. Se invece si tratta di un progetto pubblico, come nel caso del Macro Asilo, c’è una fase in più: una volta pensato, il “dispositivo” deve essere abbracciato, altrimenti non può nascere né svilupparsi. Non mi trovo davanti una materia da plasmare: ci sono delle persone, e nello specifico degli artisti, che sono invitati ad abbracciare una proposta. E a declinarla alla loro maniera. Quindi il risultato non può essere previsto a priori. 

Questo progetto in qualche modo ha ripensato anche il ruolo dell’artista nel museo e nella dinamica espositiva in generale. Possiamo dire che hai pensato il Museo come un’opera aperta?
Assolutamente sì. In questo progetto ho predisposto le regole del gioco, ma non ho nessun controllo (oppure ho un controllo limitato) su che forma assumerà il gioco. Ovviamente ci sono ore e ore di lavoro quotidiano, per fare, come dire, il “giardiniere”, intervenendo qua e là, contribuendo a far sì che il museo si sviluppi rigoglioso, ma saranno le forme di vita che partecipano a “fare” il giardino. Questa è la cosa bella.

Un palinsesto in trasformazione…
Sì e soprattutto un’opera corale. Lo ripeto, non uso le braccia degli altri per dipingere le cose come le voglio io.

Probabilmente non hai nemmeno preso in considerazione questo approccio.
Infatti. Macro Asilo è uno spazio “autogestito”, basato sull’assunzione di responsabilità degli artisti che si autocandidano e che sono il museo nello spazio-tempo assegnato loro. Uno spazio che per definizione non può essere diretto in maniera verticistica – che paradossalmente invece è quello che mi è stato contestato in questi mesi. Non ho mai fatto una programmazione basata sulla scelta delle cose che io ritengo interessanti o valide secondo un criterio personale. Si è trattato di accogliere tutto ciò che avesse le condizioni minime per essere presentato in un museo. Uno spazio ospitale, ma non un happening, perché in quel caso bastava aprire la porta e andarsene. Si è trattata di un’autogestione molto efficiente. Ho sperimentato la delega di pezzi di museo a migliaia di persone e questa cogestione ha funzionato come un orologio. Non ha dato vita alla nave dei folli, come qualcuno voleva far credere. L’assenza di un ordine calato dall’alto non ha generato il caos, ma il contrario, con buona pace dei mediatori (politici e culturali).

Come mai questo esempio di funzionalità virtuosa ha poi iniziato a essere osteggiato anche da chi inizialmente lo aveva sostenuto sul piano amministrativo?
Non è solo una questione di gestione dei musei o di sistema dell’arte; è diventata, a mio avviso, una questione politica generale. Se il MACRO Asilo è un pezzo di città e questo pezzo di città funziona senza polizia e senza telecamere di sorveglianza, se è un luogo dove un artista, un intellettuale, un professionista dell’arte viene e si prende il suo spazietto, poi si scansa, poi ritorna e tutto funziona, allora perché mi devo ritrovare il decreto sicurezza bis? È molto “sovversivo” il funzionamento così armonioso di un pezzo di città, è probabilmente questa la cosa che ha più spaventato la politica. 

Sono stato portato qui dal vicesindaco che, affascinato dall’immagine potente del MAAM, è venuto a prendermi nell’estrema periferia Est di Roma e mi ha chiesto di occuparmi del museo della città con un progetto ad hoc, che ho proposto ed è stato accettato. Abbiamo avuto una media di 30mila visitatori al mese… Perché di punto in bianco hanno cambiato idea? 

Un esempio di anarchia, nel senso filosofico del termine, che ha funzionato molto bene sul piano del reale.
Certo, MACRO Asilo è un progetto anarchico. Fondato sull’idea che gli uomini possano e sappiano collaborare nella creazione di uno spazio comune.

Questo pensiero va un po’ contro il concetto di autorità istituzionale del museo.
Al MACRO Asilo, se il visitatore entra in una sala e non trova interessante la proposta può semplicemente cambiare sala. Mentre se vai in un museo come il MAXXI e non ti piace una mostra, ti guardi bene dal dire che non ti è piaciuta, perché c’è l’idea che il museo sia un’istituzione che propone qualcosa che non può essere contestata, il cui valore non può essere messo in discussione. Il MACRO Asilo invece, proprio in ragione dell’autocandidatura, propone un rapporto più paritario tra il visitatore, l’opera e l’artista. L’opera sta lì, ma non è sacra come se ci trovassimo in una cattedrale. Accanto all’opera c’è poi sempre anche l’artista, che ha due mani e due occhi come me, ci posso parlare. L’opera realizzata nel museo torna ad essere di fatto una produzione umana, non una cosa scesa da Dio.

Comunque, oltre alle tante realtà meno mainstream nel mondo dell’arte e ai momenti che possono essere sfuggiti a un controllo rigoroso dei contenuti, nella programmazione museale sono stati coinvolti anche tanti grandi nomi dell’arte internazionale, affermati sul piano accademico e istituzionale, che hanno creato un tracciato di altissimo profilo per il museo

Il programma è stato estremamente variegato. E la cosa sorprendente – ma poi a ben vedere non troppo – è che tutti si sono trovati a casa loro, dalla Farnesina ai centri sociali.

Il MACRO Asilo si è rivelato ospitale e accogliente per i partecipanti che vi entravano, ma non è stato una comfort zone per l’amministrazione. Forse nella loro idea il museo doveva essere uno strumento di propaganda?
Non so dirlo con precisione, però credo che gli sia stato difficile sostenere questa libertà che io ho garantito a tutti (tranne ai violenti e agli intolleranti). Ho sempre detto che avrei accolto tutti i paradigmi dando uno spazio, un tempo, un microfono a chiunque avesse un pensiero da esprimere. Questo vuol dire anche accettare di essere criticati. Cosa che è successa. Qualche volta hanno colpito me, altre volte l’amministrazione. L’assessore magari ha pensato: “Ma come, vengo attaccato dentro al mio museo?“. Il problema è che il museo non è dell’assessore e nemmeno del direttore.

Il museo è in questo caso effettivamente diventato della città
Sì, perché è una istituzione e le istituzioni sono di tutti e devono rappresentare tutti.

L’edificio del Macro è un’ex fabbrica e nasce come riqualificazione urbana. Pensi che come spazio sia stato coadiuvante di questa idea di fluidità e di scambio?
Il progetto di Odile Decq è il progetto di una archistar che ha saputo creare una serie di nuove “piazze” per il quartiere. È un buon progetto, molto adatto, a mio avviso, a un progetto come il MACRO Asilo. La sistemazione delle diverse stanze è stata curata da Carmelo Baglivo, che ha tradotto il progetto in ambienti e arredi. Penso che il progetto architettonico si fruisca bene con un progetto come il nostro, ad accesso libero, con un foyer restituito a uno spazio di accoglienza, senza l’intralcio della biglietteria. Si è dimostrato un buon posto per fare quello stiamo facendo. 

Meglio questo che lo spazio del Mattatoio.
Sì, il Mattatoio nasce anch’esso come riqualificazione di spazi industriali, ma è molto più statico con due padiglioni container; la Pelanda poteva andare bene, ma a me interessava una dimensione più centrale, per portare in qualche modo l’esperienza periferica del MAAM in un contesto cittadino. Volevo guadagnare il cuore della città.

C’è qualche progetto o evento che si è tenuto al Macro Asilo e di cui sei particolarmente orgoglioso?
Devo dire che ci sono stati moltissimi progetti belli e complessi. Alcuni mi hanno dato più soddisfazione perché hanno risposto bene alle richieste del dispositivo che avevo ideato. Prendiamo ad esempio gli atelier. Ho proposto lo spazio, il diaframma di vetro, un isolamento rappresentato che si apre alla dimensione dell’incontro. Se si accolgono le regole del gioco alla fine ne esce quasi un’opera a due mani: l’artista è totalmente autonomo ma realizza le sue opere in una dimensione molto specifica che lo avvolge. Ambiente – opera – dispositivo – programma. Tante richieste e tante risposte, ogni volta differenti. Alcune le ho trovate fantastiche.

Gli artisti degli atelier sono stati quelli che ti hanno dato più soddisfazione?
Non solo negli atelier, anche negli ambienti, con progetti site specific partecipati.

Possiamo dire che si tratta di un museo che non dà delle risposte preconfezionate, ma da cui si esce pieni di domande e di input.
Sì, una complessa macchina maieutica, un po’ bulimica ma che rispecchia in qualche modo anche il mondo presente nella rete. Se guardi bene, la quadreria sembra un po’ una schermata di google.

Sì, sembra google images (che a sua volta ricorda anche l’Atlante di Aby Warburg).
Anche il programma cartaceo mensile è un quadernino mai uguale a se stesso, fatto di immagini che sembrano dei post. Non c’è stata la volontà di copiare una certa estetica familiare a chi utilizza i social, semplicemente questo è il nostro mondo contemporaneo.

La grande sfida di un museo è anche la capacità di rendersi interessante agli occhi di persone che ormai sono davvero sovraccaricate dalla visione di immagini. Sono più di 40 anni che si ripete questa frase ma è sempre più effettiva!
Il museo come è stato organizzato è anche una piattaforma. Non assomigliamo ad un palinsesto televisivo, assomigliamo a Youtube: raccogliamo e veicoliamo contenuti. Però queste similarità non sono da prendere tutte alla lettera. In primo luogo perché c’è la voglia di guardarsi negli occhi, di incontrarsi di persona, di puntare tutto sulla relazione; e poi c’è la volontà comunque di fare ricerca, di approfondire i contenuti – non solo di surfare, di scorrere e passare subito ad altro – con conferenze, incontri, lectio magistralis. Ti fermi, ti concentri di fronte a qualcosa che ti chiede un altro tempo, un tipo di fruizione che è viene da un’altra epoca. 

Cosa avevi pianificato per il secondo anno?

Il progetto rimaneva sostanzialmente inalterato, ma reintroducevo il tema della mostra, con una complessa macchina espositiva, concentrata nella grande stanza della quadreria. Volevo contrastare una percezione errata, quella di coloro che non vivono il MACRO Asilo tutti i giorni, cioè la mancanza dell’aspetto visivo e fisico dell’opera, quel rischio iconoclasta che si produce nel realizzare il vuoto che serve a rendere possibile il movimento. Ad esempio, negli atelier le opere vengono alla luce dal martedì alla domenica; se vieni la domenica vedi l’opera finita, se vieni il martedì trovi la tela con i colori accanto. Poi il lunedì l’opera va via. Le perfomance ci sono giusto il tempo della loro durata. La percezione del vuoto si ha quando si intercetta il tempo morto tra una cosa e l’altra. Questo è un museo fluido, quindi il vuoto è funzionale. Ma non è una scelta contro l’opera! Non è assolutamente il gioco della sparizione (anzi, direi che abbiamo continuamente fatto apparire). La macchina delle mostre, prevista nella sala grande, era una struttura piranesiana e felliniana che prevedeva la costruzione di percorsi espositivi su tre piani, un salire e scendere dentro questo grande labirinto (il museo situazionista?), creando un percorso che potesse accogliere tre, quattro o cinque mostre contemporaneamente, senza segnalazioni che indicassero i diversi percorsi, in modo da creare anche, di volta in volta, inattesi corto circuiti. Mostre che si intersecavano, collettive, personali, percorsi molto rigorosi con curatori diversi, oggetti diversi… Quello che mi interessava era la commistione, far emergere la cornice. Ogni mostra ha una cornice concettuale, un taglio paradigmatico, che c’è ma non si vede perché visitando una mostra ci caschiamo dentro, vediamo le opere e tendiamo a perdere di vista la struttura curatoriale. Mettendo cinque mostre insieme questi diversi criteri emergono perché c’è qualcosa che stride e fa risaltare l’esistenza di più opzioni espositive, con diversi portati concettuali. Così il visitatore avrebbe iniziato a ragionare metalinguisticamente sulla cornice. Il progetto si sarebbe chiamato Ex-position, anche per sottolineare la velocità con cui tutto si sarebbe mosso. Doveva rimanere interessante l’idea di venire al museo tutti i giorni, l’idea di un museo che cambia forma sempre, anche per farti tornare.

Un museo da rincorrere e un dispositivo espositivo che avrebbe accresciuto ancor di più il livello di consapevolezza del fruitore, anche svelando la magia della messa in scena pur di dare un potere conoscitivo in più, con mostre “ad alto scorrimento” molto diverse dalla tipologia di mostra blockbuster con continue proroghe del termine…

La mostra di solito è una cosa che vai a vedere una sola volta e non ritorni. In questa macchina anche i tempi sarebbero stati scanditi in modo diverso: era un gioco complicato – e divertente – dove le mostre non sarebbero cambiate tutte e cinque contemporaneamente: magari una poteva durare una settimana, una un mese, e poi c’era un’opera che rimaneva due anni a fare da punto fermo attorno a cui tutto ruota. 

Oltre alla macchina delle mostre, cosa ci perderemo in questo anno che vedrà il cambio direzionale?
Perderemo un museo che più che guardare al sistema dell’arte (e alla sparizione dell’arte) ha guardato all’ecosistema dell’arte. Perderemo un luogo aperto, plurale, autogestito. Ma queste idee possono – e mi auguro che ciò accada – anche esplodere in città, perché MACRO Asilo è molto più di un progetto museale: è un progetto politico, che pensa alla città come allo spazio vitale di chi la abita e non come la riserva di caccia di chi la mette a profitto.

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