intervista a cura di Elena Visentin
In occasione del Maggio Sermonetano, domenica 3 giugno 2018, abbiamo avuto il piacere di incontrare una voce particolare, già ospite dell’evento nell’edizione del 2017, quella di Lucio Leoni, un giovane uomo che si è raccontato e ci ha lasciati entrare nella sua visione di un bisogno, quello di esprimere con la musica il mondo dentro e quello fuori, in maniera a volte scherzosa, altre profondamente drammatica mitigata da una caratteristica tragicomicità. Un’intervista che è una lunga ed approfondita panoramica a proprie parole di quella che è un’opera che si protrae da tempo e nel tempo, fatta di fatiche passate e anche future. Una poesia cantata quella di Leoni che si snoda tra favole non troppo romantiche e un immediato contatto con la realtà nuda e cruda ma ben ovattata da parole e suoni. Una coscienza sociale spiccata coadiuvata da una sensibilità fuori dal normale e da una voce che talvolta addolcisce e talvolta graffia e ruggisce, non a caso: Leoni.
Chi è Lucio Leoni?
Bella domanda. Lucio Leoni è un ragazzo, un signore ormai, di 36 anni che lavora nel mondo della musica da tantissimo tempo, almeno dal 2002, e che le ha provate tutte! Ha avuto un locale, uno studio di registrazione, ha fatto il fonico, ha girato sotto il nome di BU CHO registrando una musicassetta, e che incredibilmente, a 35 anni, ha fatto un disco, Lorem Ipsum, di cui qualcuno s’è accorto (motivo per cui siamo qua).
Negli stralci brevi che si trovano sul web, si legge che hai iniziato presto ad avvicinarti alla musica, dopo aver ricevuto in regalo una chitarra da tua mamma, ma che hai poi abbandonato perché non eri portato, dedicandoti così al calcio, e che poi hai lasciato anche questa passione. Come ti sei ritrovato ad abbandonare due passioni e poi a riprenderne una con così tanto fervore?
In realtà la storia è un po’ diversa, alla chitarra classica dai 7 ai 14 anni ero davvero fortissimo, solo che parliamo di musica accademica e quindi facevo i vari Segovia, Mozart. Siccome era stata un’imposizione – perché io volevo studiare batteria, ma non me l’hanno fatta proprio studiare – dopo sette anni mi sono stufato e ho mollato tutto, come lotta adolescenziale nei confronti dei miei genitori. Ho cominciato così a giocare a pallone ma ero veramente molto scarso e quindi, sì, in realtà ho mollato entrambi, ma poi la chitarra l’ho ripresa intorno ai 20 anni non riuscendo a lasciar perdere una passione tanto grande. Ho cominciato a strimpellarla avendo dimenticato tutto ciò che avevo studiato e dovendo riprendere tutto da capo.
E lasciami dire, con dei gran bei risultati. Ma veniamo subito al punto: il tuo primo cd, perché quel titolo, perché “Lorem Ipsum”.
Lorem Ipsum perché mi piaceva moltissimo il concetto in sé: a parte la storia che non si capisce bene quale sia – se un pezzo di Cicerone o se invece una roba inventata dagli amanuensi dentro i conventi del 1200 – è comunque uno spazio vuoto, no? Uno spazio vuoto ma pieno, un testo potenzialmente infinito, auto-generativo, che al suo interno ha tutto, che significa tutto oppure che non significa niente, che lascia un enorme spazio all’interpretazione. E’ qualcosa che prendeva tutto il disco perché mi piaceva proprio l’idea di lasciare spazio. Un gesto quindi, cioè: “Come se chiama ‘sto disco? Mah fai te, o tutto o assolutamente nulla”.
A proposito di questo cd, una curiosità riguardo il brano A me mi: oltre a fornire un precisissimo quadro generazionale, c’è anche un particolare mash up, correggimi se sbaglio, con Tiziano Ferro… ecco, perché proprio Tiziano Ferro?
Sì! – ride – Vedi, questo è un momento un po’ particolare no? In cui si stanno mischiando molto le categorie: indie, mainstream… Il mainstream pesca tanto dall’indie e l’indie strizza molto l’occhio al mainstream. È sempre successo ovviamente pero ora non essendoci più il mercato discografico vero che c’era fino agli anni novanta, accadono queste cose di mescolanza per cui ti
trovi, che ne so, Tommaso Paradiso che finisce a fare pezzi con Fabbri Fibra, e dal mio punto di vista, Tiziano Ferro – oltre ad essermi stato sempre molto simpatico a pelle proprio – credo che sia uno di quei pochi che negli ultimi anni abbia provato ad innalzare un po’ il mondo POP italiano, che è sempre stato un relativamente indietro: pensa che ti trovi Laura Pausini, Elisa e compagnia bella che si confrontano con le varie Madonna, Lady Gaga… Tiziano ferro, a parer mio, è l’unico che ad un certo punto, sotto l’aspetto produttivo, delle basi e dei suoni, ha messo qualcosa in più, ha dato una spinta in più. Per cui io l’ho sempre rispettato molto e poi mi sembra carino: non ne ho idea eh – magari è uno antipatico e io non lo so – fatto sta che l’ho ascoltato molto e sono andato letteralmente in fissa con delle canzoni, per cui mi piaceva molto il fatto di mettere in mezzo una sua citazione in un pezzo così diverso dal suo genere.
C’è qui poi ancora un brano, in cui parli di una Roma che non esiste quasi più, chiudendo con un “non so se l’avete notato, io il romano, manco lo so parla’ ” Ma tu sei di Roma giusto?
Sì, sono di Roma e sono molto legato alle radici popolari romane, però essendo io nato negli anni ’80, quello che vedo di puro, di sano, di – passami il termine – SACRO della tradizione popolare romana non l’ho vissuto veramente perché è una roba che già si era persa quando io ero piccolo. Per cui dire che io il romanesco neanche lo so parlare, in realtà è una metafora per dire che in fondo, questa Roma di cui ho parlato, effettivamente, io non l’ho mai toccata con mano, quindi anche il romanesco — che non è neanche un dialetto, ma quasi una lingua vera e propria – è una cosa molto importante che dal punto di vista linguistico io non ho mai masticato fino in fondo. Mi è arrivata un’ombra di quello che era grazie ai vari autori come Trilussa e Belli.
A proposito di poeti, ci sono pezzi in cui sembri quasi un Nino Manfredi…
Sì! Infatti, la mia produzione è una cosa che deriva soprattutto da Alberto Sordi, Nino Manfredi che non da quegli autori che a partire dal romanesco hanno fatto un percorso poetico. Ti ringrazio di aver nominato Manfredi, è il mio preferito e mi fa molto piacere essere paragonato a lui.
Il tuo nuovo CD “Il lupo cattivo” contiene diversi brani caratterizzati da un lavoro introspettivo orientato al racconto, alla descrizione o alla speranza di un amore, talvolta assumendo la connotazione di un amore passato, talvolta le sfaccettature di un amore in corso e talvolta sembra essere più il desiderio di un amore in generale. Quanto c’è di autobiografico in questi brani?
E’ difficile dirlo, nel senso che in realtà di autobiografico non c’è moltissimo; ci sono degli elementi in ogni canzone ma nessuna canzone lo è dall’inizio alla fine. L’ispirazione è autobiografica. Spesso sono avvenimenti o situazioni che fai autobiografiche, nel senso che non sono per forza riferite a me, ma possono riguardare amici, vicende raccontatemi, esperienze vissute da altri che finiscono poi all’interno del racconto e mi aiutano nel meccanismo di provare a raccontare un’emozione, una storia, un qualcosa.
C’è una canzone che colpisce particolarmente, Mapuche. In Mapuche la fa da padrona una visione disincantata del mondo e la voglia prepotente di trovare qualcosa che valga la pena far vedere ad un bambino, ad un figlio. È una richiesta quasi d’aiuto cantata ad un figlio che ancora non c’è, di poter guardare di nuovo il mondo con gli occhi che non conoscono disillusione. Credi sia possibile, oggi più di ieri, raccontare ad un figlio una favola senza avvertire un retrogusto un po’ amaro?
Eh, molto interessante. Allora, diciamo che credo che sia molto importante raccontare le favole ai piccoli, più che altro per mantenerli in allenamento sulla costruzione della narrazione, sul trasferimento della conoscenza per via orale, in modo che poi si possano appassionare autonomamente alla lettura e poi alla scrittura, etc. Mapuche in realtà è in qualche modo il ribaltamento del racconto della favola, nel senso che sono io a chiedere a lui, ad un figlio che non c’è, di raccontarmi una favola proprio perché secondo me in quel pezzo c’è un po’ di visione disincantata e il papà fatica a raccontare qualcosa di bello. Nello sguardo di un bambino c’è sicuramente qualcosa di cui l’adulto in quel momento non si rende conto ma che lo aiuta a sperare: questo muro che cade e da cui comincia a filtrare la luce è una visione che nella mia scrittura sta nel racconto del bambino, non nel racconto del padre. È una sorta di richiesta al figlio, ai più piccoli, di raccontare storie piuttosto che di farsele raccontare. Sovverto il gioco del racconto, diciamo.
E tu oggi che favola racconteresti ad un eventuale figlio?
[ride] Bellissima domanda. Guarda, io non so se sia proprio necessario raccontare le favole. È interessante e necessario continuare a raccontare, poi qualsiasi cosa sia va benissimo, anche semplicemente l’ultimo viaggio che ho fatto con gli amici quando avevo 20 anni, anche quella è una favola molto bella da raccontare a un figlio, perché riferisce un’età che lui ancora non conosce e che conoscerà, e lo prepara e lo mette in discussione rispetto a un tempo che sta per arrivare. In assoluto, se vogliamo andare sui classici, mi piacciono moltissimo i miti e le leggende, per cui continuerei a raccontare molto l’Iliade, l’Odissea…
Un po’ crudi per un bambino forse…
Insomma. Però se li racconta un papà o una mamma li può ammorbidire, non è che deve per forza raccontare la versione di Omero, e così si tramandano racconti che diversamente si studierebbero solo e a scuola (e neanche in tutte) e si educano i più piccoli.
Il lupo cattivo invece è il brano che dà il titolo all’album e che racchiude questo nuovo percorso. E’ un lupo cattivo nell’accezione che gli è stata data dagli “altri”, è un po’ snaturato dalla società che lo circonda e ci circonda. Nella denuncia della società che muovi con quasi ogni tuo brano, ti senti un lupo cattivo?
Non so se sono un lupo cattivo, in tutta onestà. Quello che ho scoperto è che è impossibile pensarsi completamente privi di una parte cattiva o stronza o brutta o pericolosa; ognuno di noi ha una percentuale, chi più grande, chi più piccola, di quel mondo là, e deve imparare a conoscerla per controllarla o lasciarla libera quando è necessario che sia libera. Non mi sento un lupo cattivo però so che esiste in me una parte di lupo cattivo, e conoscerla è sicuramente più importante che far finta che non ci sia, immaginarsi perfetti.
C’è una differenza sostanziale tra Lorem Ipsum e questo album a livello di costruzioni sonore, c’è un ritmo diversificato, in alcuni brani più morbido e nella maggior parte molto più strong…
Sì, è vero. Ci sono due aspetti che motivano la cosa: uno è che suono e lavoro con musicisti diversi a seconda del tipo di progetto che mi trovo ad affrontare in quel momento, non ho una band fissa, i musicisti cambiano a seconda delle necessità del disco e in “Il lupo cattivo” questa era l’unica strada che sentivamo di voler percorrere; e l’altro motivo è che Lupo cattivo è un album che nasce a seguito di un paio d’anni definibili complessi intimamente, per cui avevo bisogno di tirare fuori una durezza che in qualche modo è aumentata nella mia vita recentemente, per questo ora forse fatico a scrivere le cose pop un po’ più semplici.
Questa complessità rende il tuo album impegnativo.
Questo è fuori discussione, io me lo sono riascoltato due settimane fa, dopo che non lo facevo da mesi, e mi sono proprio detto “ammazza che disco faticoso, ragazzi, ma che cacchio avete fatto”. È vero, è un disco che chiede un’attenzione e una fatica non indifferenti, ha un impegno di ascolto importante.
E ora dopo questo lungo svisceramento di quello che lasci di te agli altri e soprattutto del tuo lavoro è d’obbligo LA domanda, quella classica che chiude un po’ questi incontri: il genere che fai… ma c’è un genere? E’ possibile inquadrarti in una categoria o in una qualche nicchia del panorama musicale italiano di oggi?
È buffo, non so dirti se c’è un genere, chiaramente la formazione è quella cantautorale: raccontare mi interessa molto, avendo fatto percorsi di studio teatrali; poi in conservatorio con la musica elettronica è cresciuto l’interesse per una forzatura vera e propria della forma “canzone”, per trovargli una strada nuova. Riproporre le solite forme del cantautorato anni ’70 oggi mi sembra un po’ sterile, abbiamo avuto grandissimi maestri, grandissime scuole di cantautori in questo Paese per cui è difficile immaginare di poter dire meglio di un De André, meglio di un De Gregori, di un Guccini, bisogna trovare un modo diverso o, almeno, il mio istinto, la mia necessità, la mia urgenza è quella di cercare una strada diversa. Forse non c’è una categoria definita, sono solo io con la mia musica. Può piacere o meno, però è un percorso che sento di voler proseguire.