di Daniele Fiacco
L’entrata, l’uscita, un tunnel nel mezzo, con una gelatina più o meno densa intorno: eccolo, è un umano al supermercato. La sua ovvia, cinica evidenza biologica: la sua bocca, il suo culo, il suo esofago. Perché poi tutto quello che tocca e ingurgita diventa merda. E per quante alchimie può inventare un uomo, sempre merda resta. E quando tutto quello che vedi è un’immagine del genere, persino la spesa diventa un incubo. Ho preso un cestino all’entrata del supermercato, pensando ai noiosi che direbbero: “Tu almeno puoi andarci al supermercato, c’è chi non può”. Ma io che ci posso fare se i mali del mondo non consolano i miei? Quando anche la più scema delle cose diventa un ostacolo, che cos’è, se non un male?
“Gli amanti della spesa sono entità indecifrabili per me”, mi dico, mentre schivo l’inguardabile nel carrello di un’obesa: buste di caramelle gommose, bibite gassate, patatine gusto extra che dirà di non aver mai mangiato e bevuto, mentre si avvia alla cassa con la fila meno chilometrica delle altre, dando occhiatacce a chi la guarda con raccapriccio. Indecifrabili, sì, quelli che fanno liste dettagliate, quelli che conoscono i prezzi di tutto, quelli che sanno dove si risparmia un centesimo, che sommato a un altro centesimo fanno due, che moltiplicati per sette fanno quattordici, finché poi non crepano pure loro, lasciando centesimi orfani sotto al mattone, moltiplicato per milioni di umani che cagano, si moltiplicano e muoiono.
Io non vorrei andare mai più al supermercato. Potrei pagare qualcuno da mandarci al posto mio, ma avere la servitù fa così borghese che se hai un palato fine preferisci farti da cameriera da solo. E io mi servo benissimo, ma quando lo faccio inizio a moltiplicare anch’io tutti i minuti spesi per la manutenzione della vita. Perché poi devi lavare i piatti, stendere i panni, togliere la polvere, fare la raccolta differenziata. La vita se ne va così, nell’ossessione di mantenerla pulita. Quasi li capisco quelli che prendono moglie. Ma io, all’avere una moglie, preferisco spolverare.
E all’avere bambini, preferisco l’estinzione della specie. Non vedo bambini, nei bambini. Soprattutto al supermercato. Anche loro sono un’entrata, un’uscita e un tunnel con la gelatina intorno. Per di più, urlano. Manderebbero per stracci persino i loro genitori, pur di farsi comprare questo e quello, cose di cui si annoierebbero in dieci minuti, e i genitori, sfiniti, quelle urla snervanti le fanno subire anche agli altri. E ti chiedi: “Perché ai cani si deve mettere la museruola e ai bambini no?”. Oltretutto sono i migliori alleati del consumismo per colpa dei genitori stessi, che per levarseli di torno li drogano con la televisione, i giocattoli, i telefonini, e a dieci anni se li ritrovano già annoiati, ipercinetici e stupratori seriali. E mentre immagino i bambini tutti dentro a una grande fornace, come nel libro del profeta Daniele, ricordo le parole dei noiosi: “Anche tu sei stato bambino”.
Già, anch’io. Così si vocifera.
Ma che ci posso fare se la mia mancanza di pazienza verso i bambini è tale oggi che non biasimo chi mi ha augurato la morte quando lo ero io? Io non so chi sono stato da bambino. So solo che più passa il tempo, meno li sopporto. La mia è una sorta di odio razionale per l’adulto già dentro di loro, tutte le meschinità in miniatura che non si danno ancora la pena di contrariare. E le voci dei noiosi mi contraddicono: “I bambini almeno non sono ipocriti”. “Sono sfacciatamente stronzi”, rispondo.
Ma chi li sopporta veramente, i bambini? Fanno finta di amarli, come si fa coi cani. Li usano. Chi per realizzarsi attraverso di essi, chi per sentirsi completo, chi per dare un senso a non si capisce cosa, chi per sentirsi come gli altri. Non c’è fine all’elenco delle sragioni. E c’è chi si sente una bella persona nel dire di amare bambini e cani. Io, invece, sono una brutta persona: i bambini mi infastidiscono, i cani anche, ma solo quelli che hanno un padrone, il quale è felice di avere addosso un naso umido, i peli e la bava, ed è felice di fare ai cani quello che non può fare ad altri umani, ovvero renderli ubbidienti.
Ma forse sono un po’ buono anch’io. Aspettavo che il semaforo diventasse rosso, c’era un bambino all’altro lato della strada, e io pensavo: “Ma se ora quel bambino attraversasse la strada e gli passasse sopra un camion, te ne fregherebbe qualcosa?”. “No”, mi sono risposto. Poi il semaforo è scattato e il bambino mi è inciampato davanti. Non si rialzava. Io mi sono precipitato su di lui, l’ho preso per la giacca e l’ho spinto sul marciapiede. Sulle strisce pedonali, di fronte alle macchine pronte a partire, ci sono rimasto io. Mi sarei fatto passare sopra, pur di aiutarlo. Solo perché in quel momento lui aveva bisogno di me. Non dimenticherò la sua faccia smarrita, che non capiva il perché della caduta. Si è voltato e mi ha detto “grazie”, timido e ancora spaventato, ed è corso via verso il tram, dimenticandomi sulle strisce pedonali, con le macchine pronte a investirmi. Quel bambino sapeva dire “grazie”. Cosa avrebbe fatto uno che invece ostenta amore per bambini e cani? E cosa avrebbe fatto un bambino già adulto? Così ho pensato che, sì, ero una brutta persona, ma almeno non ero una merda. E che forse è solo per consolarci di una sensibilità esasperata che ci raccontiamo di non provare più nulla.
Sono in cerca del latte, faccio il giro dello stesso scaffale tre volte. Non sta nello stesso posto in cui l’ho trovato l’ultima volta. Spostano spesso le cose per obbligarti a comprare quello che non ti serve. Il mal di testa è in omaggio. Do un’occhiata ai carrelli e ai passeggini che mi sfrecciano di fianco come carri armati. La spesa più in voga, quella che fa risparmiare tempo e denaro, è pura autoflagellazione. Tanto il cibo va dentro, non si mostra. Al resto ci pensa la chirurgia plastica. Alimenti precucinati, alcolici e bevande zuccherate, per non perdere tempo ai fornelli e al lavandino, producendo montangne di rifiuti per un piatto di veleno sul tavolo. Perché si sa, stare sui social a inflaccidirsi i neuroni richiede tempo.
Poi, distratto dai pensieri sull’orrore della spesa, do una spallata a qualcosa di finalmente solido. Mi giro, mi scuso. E ho pensato: “Chissà che dieta rigorosa farà uno così”. Sembravano anche muscoli veri, non quei gonfiori plastificati da vaccone sotto ormoni che si vedono in palestra. Poi ho guardato nel carrello e sono ingrassato io al posto suo. “Fanculo anche tu e la tua salute taroccata”, mi urlo in faccia. Finalmente sono riuscito a trovare il latte. Ma sarà poi latte?
E dopo aver preso la più spartana delle carte igieniche, bianca e inodore, quasi nascosta tra pile di rotoli dai colori vivaci, le fragranze esotiche e le texture delicate, neanche dovessero lucidare cristalli di Boemia, esco dal tanfo chimico di quel corridoio, in cui soffocavo come in un loculo. Vedo un gruppo di persone accalcarsi verso qualcosa, vedo le mani infilarsi, le spinte che si danno, i cartoni che cadono per terra, sento gli urletti delle megere. Poi alzo lo sguardo e leggo Sconto e a mano a mano che altre persone si avvicinano, attirate dall’entusiasmo dell’orda, vedo i primi arrivati uscire da quel viluppo, contenti del loro panettone scontato, dei loro centesimi risparmiati, da moltiplicare. Cosa avrebbero fatto per 1000 euro?
Mi avvio alla cassa, per niente sorpreso. Ho persino dimenticato cos’altro dovevo comprare, a parte questa carta igienica e questo latte. E con la più vuota delle emozioni esco dal supermercato, pensando ai noiosi che direbbero: “Hitler è il simbolo del male assoluto”, quasi per allontanarlo da sé, per esorcizzare l’Hitler che non si crede più possibile, l’Hitler che temiamo in noi stessi. Ma prendi un uomo qualsiasi, uno di quelli che si accapiglia per un panettone scontato, ad esempio, dagli un potere o lascia che se lo prenda e lo userà allo stesso modo. Perché chiunque può essere Hitler, tutti gli altri lo seguiranno.
In copertina: Supermarket il giorno prima dell’apertura, centro-Italia, 2017. Foto: Jamila Campagna