di Valeria Martella
Outdoor Festival si è da poco concluso e come ogni evento artistico di imponenti propositi non resta che tirarne le somme. Cosa è stato? Cosa ha funzionato?
D’altra parte, l’interrogativo è stato una colonna portante del festival stesso. Spieghiamo meglio: il tema di questa ottava edizione è stato attuale più che mai, ha preso il nome di Heritage e la forma di un grande punto interrogativo, per l’appunto, che ha funzionato come chiave di interpretazione di tutti gli eventi, dalla mostra alle esibizioni live, dalle conferenze al market.
Tutto si è svolto all’interno delle mura – da poco messe a nuovo – dell’ex Mattatoio di Testaccio, Roma – oggi rinominato Mattatoio con la M maiuscola. Testaccio è da moltissimi anni il quartier generale dell’arte di strada e non poteva non essere dimora dell’Outdoor per almeno un’edizione. Come da tradizione del festival, la mostra in particolare ha svolto un ruolo da protagonista.
Quattro sono stati i percorsi d’allestimento interni: DISOBEDIENCE, LIGHTSPEED, RETROMANIA, TOTAL RECALL, ideati e studiati dal collettivo di architetti Orizzontale, che da anni reinventano lo spazio delle città dando nuova vita a luoghi dismessi. I percorsi di Outdoor si sono materializzati sotto la forma di un labirinto che il visitatore ha dovuto fisicamente attraversare per scoprire le opere situate lungo il percorso. L’atto dell’immergersi nelle installazioni si è sostituito al vecchio ordinamento del festival, dove a fare da Cicerone era la più classica scoperta di luoghi adibiti alle mostre, come nell’edizione del 2015 presso l’ex caserma Guido Reni. Gli artisti, disposti secondo il proprio percorso d’appartenenza hanno offerto ciascuno la propria idea di patrimonio. Questa ha assunto la forma di un ricordo del passato nostalgico per il retromaniac Fabrizio Efrati e per la sua collezione di sneakers meticolosamente disposte, ma si è anche manifestata nell’esatto contrario – cioè nella disobbedienza – in artisti più sovversivi come Wasted Rita, che ha fuso culto e repulsione nel suo Funeral of the Patriarchy.
Non poteva mancare di certo una forte presenza digitale in questa edizione 2018. A reinventare il passato con gli strumenti di oggi ci hanno pensato Scorpion Dagger in Wilderness – dando vita ai dipinti nelle sue gif animate – e Sam 3, facendo ballare in video delle statue antiche e proiettandole in una stanza disco. Il nome? Classic Dance.
Interessante spunto di riflessione lo ha offerto Biancoshock con B.Toy, un mock up di artista in scatola pronto per l’uso, simbolo di una street art spesso usata a fini ludici in cui l’artista non è altro che un intrattenitore. L’opera stessa ha avuto successo per via della sua fotogenicità, e forse questo più che rafforzarla l’ha indebolita di significato.
C’è da dire che le mostre di Outdoor sono sempre state improntate sulla visual art ma, nell’escalation che sta avendo l’universo digitale dell’immagine, l’esposizione oggi sembra esser costruita appositamente per i social media, configurandosi come un’esperienza ludica ancor prima che formativa.
L’intero impianto espositivo, molto accattivante, ha preso le redini delle due pelande dedicate alle installazioni cedendo gloria quasi unicamente a se stesso.
Nel complesso, Outdoor si è riconfermato come un appuntamento annuale imperdibile nella Capitale, un evento al quale vale sempre la pena fare visita, il posto giusto per inquadrare il panorama attuale dell’arte visiva nei suoi riflessi più bui o splendenti.
In copertina: Scorpion Dagger, Outdoor 2018, Forest Party