di Francesca Attiani
Non si può vivere un’epoca senza assorbirla. Ma per trarne il succo senza ammalarsi, si deve essere in possesso di un antidoto, di una difesa che immunizzi contro il rischio di farsi cambiare, di perdere se stessi in cambio della novità di quel momento.
Questa medicina è la critica. Quando si guarda agli eventi del proprio tempo – storici, politici, culturali – senza una razionalità critica, si rischia di farsi inghiottire dal tempo.
Gillo Dorfles sfruttò la critica ad uso vitale, poiché essa esiste in quanto esiste chi la pensa, il formularla attribuisce valore ai fatti e ai gesti, e come tale non è una mera riflessione ma uno scudo per vivere meglio, per Dorfles fu esattamente questo.
Gillo Dorfles è stato se stesso per 107 anni (109 dato che gli sbagliarono il certificato di nascita): un elegante triestino aristocratico, che dello stile non si privò neanche per un istante. Lo stile, di un uomo nato sotto l’impero asburgico, gli fu tramandato, e non si può non riconoscere che ebbe in questo notevole fortuna. Sì, perché raramente si può acquisire con il crescere lo stile e dunque la capacità critica; si tratta di valori formali che non possono esprimersi senza contenuti. Dunque, l’educazione e il clima di fervore culturale dove si formò Gillo furono tali da dotarlo dello scudo con cui affronterà tutta la sua lunga vita.
La bisnonna di Gillo era stata amica di Giosuè Carducci, la nonna gli raccontava le imprese delle “cinque giornate” di Milano, il suocero era un caro amico di Giuseppe Verdi, la moglie fu portata all’altare da Arturo Toscanini – che lui chiamava Artù – e l’infanzia trascorsa a Trieste lo vide nella libreria di Umberto Saba amico di sua figlia. Poi l’amicizia con Italo Svevo e Leonor Fini, Leo Castelli, Dino Buzzati che gli propose per primo di scrivere per il Corriere della Sera.
Insomma, tante le figure incredibili che conobbe fin dalla giovinezza, una élite culturale che stimolò la sua indole curiosa e testarda, e lo sollecitò a intraprendere più percorsi paralleli: infatti, se da un lato volle fin da subito interessarsi di arte, dall’altro scelse di prendere una laurea “seria”, per quei tempi, come quella in medicina. La strada artistica però si diramò in altre due strade: alla prima attività critica che lo vide collaborare fin dagli anni trenta del Novecento con le maggiori riviste di settore (La Rassegna d’Italia, Le Arti Plastiche, La Fiera Letteraria, Il Mondo, Domus, Aut Aut, The Studio, The Journal of Aesthetics), si affiancò l’espressione della pratica artistica che culminò con la fondazione di un movimento. Nel 1948 fonda, per l’appunto, MAC o Movimento per un’arte concreta – insieme a Bruno Munari, Galliano Mazzon, Atanasio Soldati e Gianni Monnet – riconoscendo a se stesso un’esigenza alla creatività che non volle mai soffocare.
La scelta coraggiosa di portare avanti sia la carriera teorica che quella pratica dell’arte, ha posto Gillo Dorfles spesso in conflitto con i suoi colleghi critici, ed in particolar modo con numerosi storici dell’arte che possedevano un’idea pura del conoscitore storico-artistico.
Gillo non si è mai sottratto a questi scontri intellettuali, famose restano le diatribe avute con Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan, ma allo stesso tempo ha privilegiato anch’esso il ruolo di critico per sé, descrivendosi come un “dilettante della pittura” che sperimentava, che si divertiva giocando senza possedere un’educazione ai colori specifica. Ammetteva di non aver, suo malgrado, raggiunto l’apice che sperava nella sua forma di espressione artistica.
Tornando alla sua laurea in medicina, con specializzazione in psichiatria, non si può dire che non abbia esercitato questi strumenti. Molti definiscono Dorfles uno psicologo della cultura e, a ben vedere, affondò lo sguardo nel gusto sociale, anche in quello che non gli apparteneva, addirittura menzionando quella mancanza di stile e di decoro che molti si vergognavano solo a pensare: il kitsch. Nel 1968 uscì il famoso volume che attribuì a certa comunicazione di massa, agli oggetti prodotti in serie, il riconoscimento artistico. Da quel momento il cattivo gusto, o meglio il brutto, entrava nei musei, nei luoghi di cultura e cominciava a riguardare anche chi lo aveva snobbato, facendo capire a tutti che l’arte non sarebbe stata mai più come prima. Che a fare questa azione di svelamento sia stato Gillo Dorfles pare obbligato, intuendo la sua vena raffinata.
La moda lo interessava tantissimo, si faceva cucire gli abiti dai migliori sarti e mai e poi mai si sarebbe vestito di blu, un colore che reputava troppo formale. E della moda prese il lato neoclassico, quel rigore di canoni algidi e precisi che fecero il suo carattere.
Gillo Dorfles seppe indossare il Novecento, anche avendo vissuto in pieno l’era digitale, rimase un figlio del secolo scorso, che odiava il fascismo e amava le disarmonie sociali, con un’unica paura: la noia, quella che per Dorfles coincideva con il non-leggere.
In copertina: ritratto di Gillo Dorfles © IL MURO