di Francesco Rosetti
Il punto di partenza è, ovviamente, la mostra Arte Povera del 1967 alla galleria La Bertesca di Genova e il manifesto teorico Appunti per una guerriglia, successivo di pochi mesi. Qui Germano Celant lancia il suo sasso nello stagno dell’arte concettuale mondiale, in parallelo allo sviluppo di body art, performance, land art e, forse, della stessa pop art. Soprattutto si pone come il tentativo più radicale di uscire dal sistema delle belle arti e dalla loro tradizionale divisione in pittura, scultura e architettura. Fin qui siamo a considerazioni banali, quasi scolastiche ed enciclopediche, nel periodo di maturazione del grande critico-curatore e del movimento cui comunque legherà indissolubilmente la sua figura; si potrebbero aggiungere a queste prime, generiche, considerazioni il rapporto (tessuto a posteriori) col teatro grotowskiano nel tentativo di spogliare la materia, oppure il ricorso insistito da parte di molti artisti del gruppo a materiali poveri, scarni, preindustriali, di scarto (e qui si aprirebbe come minimo una parentesi sull’enorme debito contratto con Burri da parte di Kounellis, o Pistoletto, o Penone). Ma se già osserviamo la composizione degli artisti partecipanti a quella mostra incunabolo del ’67 e poi alla successiva esibizione del ’68, alla Galleria de Foscherari a Bologna, queste semplificazioni antologiche vanno a esaurirsi, a dissolversi in una rete di personalità decisamente eterogenee. È difficile, infatti, ricondurre ad unità l’attività – anche nello stretto giro di anni in cui il gruppo operò sotto la guida di Celant – di artisti come Kounellis, Pistoletto, Paolini, Penone, Calzolari, Merz, Fabro, Ceroli, Anselmo. E allora cosa fu l’arte povera? E qui la domanda retorica va a intrecciarsi con la figura di snodo di Celant, non soltanto come figura curatoriale e critico delle idee, ma anche come una variabile fondamentale dell’arte concettuale, almeno nelle sue linee di sviluppo dopo gli anni Settanta. L’arte povera dunque – con le coordinate di Im spazio e in espressionismo designate da Celant stesso – non è riconducibile ad unità; si dirà che questo è tipico di tutti i movimenti avanguardistici, almeno quelli classici, dove figure come Marinetti, Tzara, Breton costituivano un polo attrattivo e gli artisti interni al movimento una forza centrifuga piena di variazioni. Ma nell’ambito dell’arte povera questo movimento centrifugo di artisti che non volevano “fare gruppo” (sia detto con mille cautele) è programmatico, anzi esibito. Dunque Celant, con la sua figura di critico demiurgo, non crea dal nulla un movimento, né copre con la sua costruzione teorica le differenze tra i suoi colleghi, ma rilancia tutto proprio sulla particolarità e la mancanza di coerenza degli artisti che compongono il suo gruppo. Da questo punto di vista l’arte povera, che tra l’altro copre un arco breve della sterminata attività curatoriale e teorica di Celant, è l’ esatto opposto di un movimento, ed è basata tutta sull’evento, sull’imponderabile nel rapporto tra gli artisti e all’interno della processualità creativa degli artisti stessi. Antiavanguardia? Forse. O forse l’apoteosi della nozione stessa di avanguardia. Di sicuro è la scoperta – parallela a quella della filosofia poststrutturalista – del frammento e della dissoluzione della nozione di autore, almeno di quella modernista di creatore coerente di forme.
Poi ci troviamo nel 1971. Il gruppo arte povera si scioglie, pur con interessantissimi ritorni antologici, come a fare il punto sugli studi stessi sul gruppo, oramai storicizzato, ma anche, nietzschanamente, inattuale, e Celant prosegue la sua attività che, da curatore di fama internazionale, lo porta a diventare un vero e proprio storico delle idee ponendosi tra i principali storici dell’arte che cercano di fare il punto sulla via italiana alla contemporaneità. E lo fa con esibizioni monumentali, oramai storiche, tra le quali bisogna citare come minimo Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959 al Centre Pompidou nel 1981, Italian art, 1900-1945 a Palazzo Grassi a Venezia e Italian Metamorphosis 1943-1968 al Guggenheim di New York, fino alla celebrata esibizione Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943 alla Fondazione Prada a Milano. Tutte esibizioni controverse, e spesso criticate, ma con una volontà di ricostruzione filologica dei periodi presi in esame e con l’ambizione di restituire la tessitura di un intero secolo della storia italiana, dove l’Italia si porta definitivamente nella contemporaneità. In fondo Celant, al di là della dicotomia tra pittura e nuove arti visuali (di nuovo, performance e installazione) si è mosso sempre con questo recondito scopo: portare l’Italia nella contemporaneità e definire la contemporaneità nei suoi sviluppi post-storici.