Einaudi, Torino, 2014.
Forse aveva ragione Jeremy Bentham nel concettualizzare il Panopticon, un carcere ideale in cui il controllo risultava essere invisibile, sia per il controllore e sia per i controllati. Potrebbe riassumersi in questa forma progettuale semitotalitaria l’idea del cinema – probabilmente non solo del cinema in sé e per sé, ma delle opere audiovisive in generale – del terzo millennio: Franco Marineo affronta la questione a partire dalla fine degli anni Novanta, quando la narrazione trova l’apice ed il suo iceberg di collisione con la realtà: Jurassic Park definisce concretamente l’immersione del reale nella tecnologia (o viceversa), attraverso la possibilità, reale, di riportare alla vita i dinosauri, grazie all’intervento della biotecnologia e ad un asfissiante controllo non solo di locazione (gabbie e recinzioni) ma addirittura di riproduzione. L’ossessione del controllo definisce una paura qui ancestrale, quella di una natura scomparsa che non può venire a contatto con l’uomo, ma con Fight club assistiamo ad una progressione del tutto inaspettata: l’esplosione finale dei grattacieli sembra un vero e proprio prequel di quello che sarà poi il lungo e catastrofico film dell’11 settembre 2001.
Partendo da questi due film, Marineo analizza la trasformazione della narrazione e dei suoi soggetti, che riflettono obbligatoriamente le conseguenze storiche, fisiche, psicologiche di un evento che si è letteralmente fatto cinema. Assistere alla caduta del World Trade Center ha significato uno spostamento irrimediabile del centro della visione spettatoriale: guardavamo, impotenti, la realtà nel suo istantaneo svolgimento, senza che quelle immagini passassero prima da una cinepresa, quasi a sublimare l’idea di avvicinamento iniziata dai dinosauri spielberghiani. Un’idea che da quel momento si è fatta bisogno e necessità, soprattutto attraverso i nuovi prodotti seriali (Lost su tutti), che hanno condensato e inglobato la partecipazione di ogni singolo spettatore nello svolgimento della narrazione, grazie ad una convergenza mediale resa possibile dalle varie istanze tecnologiche (Internet, videogiochi), che hanno permesso svariati punti di accesso alla narrazione e al suo svolgimento. Ed ecco, quindi, la crasi: la convergenza fagocita cinema e televisione, in un’estetica contaminata, rompendo i confini (esattamente come il recinto del T-Rex) e lasciando confluire nella serialità i bisogni di frammentazione del soggetto, di complessità delle linee narrative che il cinema non riusciva più a contenere. Anche il dogma del tempo viene a trovarsi completamente stravolto: nelle scelte narrative scandite da una rinuncia alla linearità (flashback e flashforward diventano prettamente narrativi, quasi dei momenti di rivelazioni o di ricostruzione della storia stessa) e nella consapevolezza che le nuove forme di fruizione diventano sempre più frammentarie e frammentate (l’uso di diversi oggetti di visione come pc, tv on demand non permettono più il controllo del tempo spettatoriale); Marineo sottolinea quanto la relazione tra pubblico e schermo sia andata oltre quella che Jullier definiva come «essenzialmente fisica e sensorialmente eccitata»: non c’è più soltanto eccitazione, c’è una forma di aggressività diretta che tende a portare lo spettatore sempre più all’interno dello spettacolo, non più semplicemente immerso ma implicato, attraverso stimoli non solo sensoriali ma concettuali.
Questo viaggio nel terzo millennio, quindi, presuppone un’interconnessione tra immaginari, narrazioni e tecnologie, che tendono ad incrociarsi e a fondersi in un unicum complesso, instabile ed individualizzato, che vede nel capitolo finale, 70 fotogrammi, per l’appunto settanta esempi di trasposizioni narrative cinematografiche per cercare di districarsi nel magma attuale del cinema, mai così declinato, slabbrato e sfaccettato.
Vera Viselli