di E.M.
«Non sono l’eroe della mia storia. E a essere precisi neppure il cantore. Anche se gli avvenimenti cui ho assistito hanno sconvolto il corso, fino ad allora di scarso interesse, della mia esistenza, anche se continuano ad influenzare pesantemente il mio comportamento, il mio modo di vedere.»
(Georges Perec; W o il ricordo d’infanzia)
Scatole di latta, un po’ ammaccate.
Una contiene delle medaglie: Distintivo d’Onore per le ferite e le lesioni, Croce di valore, Croce di Monte Cassino n° 39443, Croce al Merito con Spade.
Nell’altra, una vecchia scatola di sigarette rossa, trovo delle piccole toppe di stoffa e dei punzoni.
Il tessuto è liso, i colori sbiaditi (la forma di alcune mi racconta dove erano posizionate) e delle piastre legate insieme da uno spago.
Mio nonno non parlava mai della guerra.
Nemmeno quando veniva incalzato dalle mie domande di bambina curiosa, nei pomeriggi estivi passati a giocare a carte.
Nell’ostinazione filologica di voler in qualche modo ricostruire quella parte di storia familiare e soddisfare la mia curiosità, anni fa in un saggio di Marianne Hirch, docente di letteratura comparate alla Columbia University, per la prima volta mi sono imbattuta nel termine postmemoria. In Family Frames: Photography, Narrative, and Postmemory [1], la Hirsch definisce così il rapporto delle generazioni successive a coloro che sono sopravvissuti ad un evento traumatico con le esperienze provate dai loro genitori, che vengono ricordate attraverso storie, immagini ed esperienze familiari.
Questa forma di memoria non si basa sui fatti, bensì sulla loro rappresentazione; immagini, oggetti e racconti assumono un ruolo decisivo nel processo di ricostruzione.
Mio nonno non parlava mai della guerra.
Era nato a Wozniki in Polonia, figlio di allevatori di cavalli e proprietari di una fattoria. Nel 1938 era già arruolato nella KOP (Korpus Ochrony Pogranicza, il corpo di difesa della frontiera). Nel settembre del 1939, dopo l’invasione da parte di Germania e Russia, il suo battaglione di fanteria Stolpce si scontrò con l’esercito russo. Venne catturato il 19 settembre nei dintorni di Burstzyn e portato nel campo di raccolta di Kam’janec’-Podil’s’kyj, scampando miracolosamente alle fucilazioni sommarie attuate dai sovietici. Il 4 ottobre fu deportato nel campo di concentramento di Ròwne-Lwòw, nell’Ucraina occidentale, dove trascorse due anni a litigare con cani e topi per avanzi e bucce di patate. Nel 1941, liberato dai russi, si arruolò come volontario nell’armata del generale Władysław Anders.
La mia generazione è quella che osserva lo spostamento da una memoria silenziosa, privata, a quella ufficiale, istituzionalizzata, caratterizzata da musei-memoriali-mausolei, commemorazioni varie ed eventuali e retoriche vuote. La mia generazione è la terza generazione, quella dei nipoti dei combattenti e delle vittime; è quella che si scontra contro le dimenticanze e le rimozioni della storia nazionale. Come testimoniare, quindi, come rappresentare queste esperienze senza sottostare al giogo del dovere della memoria?
Il fumettista statunitense Art Spiegelman pubblica, negli anni ’80 su Raw, la graphic novel Maus. A survivor’s tale. Racconta la storia del padre Vladek, dalla spensierata giovinezza in Polonia, al matrimonio con Anja, una giovane di buona famiglia, allo scoppio della guerra con la cattura e la deportazione verso i campi di concentramento (Mauschwitz). Al contempo, è l’autobiografia dello stesso autore, il racconto del suo difficile rapporto con il padre, perseguitato dai fantasmi dei campi di concentramento. Il genio di Spiegelman, per me, risiede in questo; nella scelta di adoperare nella rappresentazione della più grande aberrazione della nostra storia, un registro comunicativo paradossale – il fumetto – e pertanto spiazzante: «…un modo appropriato per dire l’indicibile.»[2]
Il non detto (o l’indicibile) è fondamentale nella struttura narrativa: è con esso che si è chiamati ad interagire e a costruire un senso.
Mio nonno non parlava mai della guerra.
Durante l’addestramento in Iran, Siria e Palestina, conobbe Wojtek[3], con il quale condivise rancio, sigarette e birre. Con la Seconda Armata dell’esercito Polacco sotto la direzione del generale Anders, mio nonno sbarcò in Italia nel dicembre del 1943. Prese parte allo sfondamento della linea Gustav, col ruolo di guastatore. Venne ferito durante l’assalto all’abbazia di Montecassino, la notte del 17 maggio 1944.
Continuò la guerra sulla linea Gotica e quasi non ci rimise la pelle. Guidò i lavori per la costruzione del cimitero polacco di Montecassino. Dopo la guerra, si trasferì per alcuni anni in Argentina con la moglie e la figlia, per poi tornare in Italia con lo stato di apolide. Diventò cittadino italiano solo nel 1964 e finalmente tornò a visitare la Polonia dove ritrovò la sorella (che partecipò alla Rivolta di Varsavia).
Mio nonno non parlava mai della guerra.
Né ha mai scritto della guerra.
Semplicemente preferiva cancellare quel periodo.
Georges Perec compone, tra il 1969 e il 1975, W o il ricordo d’infanzia. Il libro è diviso in due storie, apparentemente slegate; una narra di una società fondata sull’ideale olimpico in una lontana isola a largo della Patagonia, l’altra parte costituisce una vera e propria autobiografia. Perec nacque a Parigi nel 1936, suo padre morì in guerra nel 1940 mentre la madre fu deportata ad Auschwitz all’inizio del 1943, tuttavia riesce a salvare il figlio, mettendolo su un treno della Croce Rossa diretto a Villard-de-Lans, dove trascorse gli anni del conflitto presso zii paterni. Nell’ottavo capitolo, servendosi di vecchie fotografie, tratteggia i ritratti dei suoi genitori. «Non ho ricordi d’infanzia», scrive Perec ed il solo mezzo a sua disposizione per colmare quel vuoto è la scrittura.
«Scrivo: scrivo perché abbiamo vissuto insieme, perché sono stato uno fra loro, ombra in mezzo alle loro ombre, corpo accanto ai loro corpi; scrivo perché mi hanno lasciato dentro il loro marchio indelebile, con la scrittura come unica traccia: il loro ricordo è morto alla scrittura; la scrittura è il ricordo della loro morte e l’affermazione della mia vita.»[4] Il protagonista non è l’attore, bensì il testimone delle vicende narrate.
Immagini, ricordi, voci, silenzi trovano così una loro sistemazione.
(to be continued…)
[1] Cfr. M.Hirsch, Family Frames: Photography, Narrative, and Postmemory, (Harvard University Press, 1997). Questo tema sarà ulteriormente sviluppato in The Familial Gaze, (Hanover, University Press of New England, 1999).
Si veda anche Rites of Return: Diaspora, Poetics and the Politics of Memory (with Nancy K. Miller, Columbia University Press, 2011) e The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust, (Columbia University Press, 2012).
[2] A. Spiegelman; intervista a La Stampa, 13 gennaio, 2012
[3] Cfr. G. Morgan, W. A. Lasocki, Wojtek Soldier Bear. La straordinaria storia di Wojtek orso soldato con il II Corpo Polacco, Angelini Editore, 2010.
[4] G. Perec; W ou le souvenir d’enfance, Denoël, 1975; W o il ricordo d’infanzia, tr. Henri Cinoc, Einaudi, Torino, 2005).