CARLOS D’ERCOLE, VITA SCONNESSA DI ENZO CUCCHI

Quodlibet, Macerata, 2014.

Un’analisi lucida e puntuale dell’opera di un artista comporta un rischio, quello di prescindere, paradossalmente, la sostanza che si cela al di là di un gesto pittorico, di un segno. È necessario compiere un passo ulteriore, valicare la disamina formale e spingersi nell’indagine di ciò che è nient’altro che umano. Una tale pratica deve essere distinta dal resoconto di gesta rocambolesche, di vite al limite; si tratta piuttosto di operare una riflessione profonda e critica sul pensiero dell’artista, sulla personale concezione di vita e dunque sulle ragioni del fare artistico. D’altro canto, cedendo all’eccesso opposto, si rischia di produrre una sterile impalcatura biografica, anch’essa pericolosa.

Per questa ragione, Vita sconnessa di Enzo Cucchi di Carlos D’Ercole, è un esempio di biografia non convenzionale dove la ricostruzione della personalità artistica di Cucchi si costituisce su piani disarticolati e sconnessi, appunto. L’opera letteraria in questione si nutre di testimonianze provenienti dalla sfera professionale tanto quanto da quella personale. Ci si imbatte dunque non solo in resoconti di critici, storici dell’arte, galleristi e collaboratori ma anche in aneddoti e memorie di amici più o meno stretti. Una testimonianza corale che si fonda sulla dialettica del frammento; un mosaico che restituisce una personalità intricata, a tratti incoerente, provocatoria e beffarda. Attitudini, quelle proprie di Enzo Cucchi, che verso la seconda metà degli anni Settanta lo accomunavano ai membri della congrega della Transavanguardia – movimento artistico di cui egli era il più visionario – in cui l’ironia e un certo distacco rispetto al gusto sociale dominante costituivano una ricerca artistica volta al recupero di tecnicismi considerati allora inattuali; la pittura ne era il massimo esempio.

È nella scelta stilistica di D’Ercole, nel tentativo di restituire un documento dalle molteplici sfaccettature non esauribile in compartimenti prestabiliti, che si condensa tutta la complessità della figura di Cucchi: una tipologia di artista che da etichette e consuetudini si tiene a distanza, sebbene l’appartenenza alla Transavanguardia gli sia costata, in passato, una costante inquadratura. Un contrassegno certamente non sempre gradito e opportuno, e che anzi, nell’intervista riportata nel capitolo finale, viene definito dall’artista stesso come una «croce, una fatica, un handicap».

Dunque, tra i contributi di Emilio Mazzoli, Francesco Clemente, Brunella Antomarini, Luigi Ontani, Joseph Helman, Miltos Manetas, Salvatore Lacagnina, Paul Maenz, Bernd Kluser, Mimmo Paladino e Jacqueline Burckhardt non si configura alcuna celebrazione, tantomeno idealizzazione; Enzo Cucchi è, nell’opera di Carlos D’Ercole, l’uomo che incarna la transizione postmoderna, la disillusione che bersaglia, ineluttabile, la concezione di identità come corpus unitario. Ciò che rende interessante questo ritratto desueto è la singolarità che si evince in Cucchi fin dagli esordi, quando il ricorso a un’espressività tradizionale si coniugava a una elevata considerazione dello sperimentalismo tipico delle tendenze contemporanee. Una consapevolezza di passato e presente necessaria, se si considera il fenomeno della Transavanguardia come manifestazione di una scissione tra oggetto – finalità – significato e il conseguente tentativo di ri-acquisizione linguistica.

D’Ercole consegna al lettore un’opera che si fa specchio di tutto un contesto storico-artistico ricco di contraddizioni proprie e non solo; osa andare incontro all’uomo, come afferma lo stesso Cucchi: «I pugili e le puttane hanno la capacità di andare incontro all’uomo, la cosa più difficile da fare. Devono misurarsi con la paura che non è la paura dell’ignoto, di un terremoto, ma una paura che conoscono. Quindi meritano grande rispetto».

Gaia Palombo

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