di Augusto Pieroni
Tizio vestito di nero: Oh, lunghetta ‘sta fila eh? Speriamo che ne valga la pena! Auguriamoci che finalmente si veda della buona vera fotografia! No?
Tizio chic: Cioè scusi? Che vuol dire? Ancora stiamo lì a distinguere? A me interessa se c’è dell’arte. Se c’è, poi, non conta com’è.
Nero: Ma via, se continuiamo a buttare tutto nel calderone, me lo spiegate a che serve essere qui o (che ne so) in macelleria?
Chic: Uuh quant’è antico! Ancora lì, sta? “Questo è fotografia, quello è pittura”. E “se non è questo, allora dev’essere un’altra cosa”. Ma a che vi serve decidere prima cosa state andando a vedere?
Nero: Glielo spiego subito. Se una disciplina esiste è perché ha delle regole, o almeno delle linee di tendenza. Se un’opera vale o meno dipenderà anche da come interpreta quelle regole, da come recita il proprio ruolo. Se le piace tanto il dubbio, allora le faccio questo esempio: se non c’è un Amleto lei non saprà mai se le tocca essere Laerte, Ofelia o Amleto stesso, e non sa cosa deve recitare o quando.
Chic: Ah, è così? Cioè se non c’è un copione non c’è il testo? Povero John Cage!
Nero: Non mi prenda per un anacronista! Conosco la storia, conosco le infrazioni alla tradizione, ma insisto che senza una bussola non si va da nessuna parte.
Chic: …(alza le spalle)
Un altro tizio: Scusate eh, stavo su Facebook col cellulare, ma non ho potuto evitare di ascoltare. Vi dispiace se mi inserisco nella discussione? tanto qui la fila è lunga. No perché ho sentito parlare di Amleto: mi piace un sacco, ho linkato un pezzo da Youtube proprio adesso. “Essere o non essere”: proprio un taglio, no?
Nero: Seh, vabbè! No guarda, per me l’Amleto è – e resta – un classico del teatro tragico. E l’ho usato proprio per spiegarmi meglio, dato che è una pièce dove si capisce bene la disastrosa impotenza di chi non ha la forza per passare dal pensiero all’azione. Quindi – bah! – non lo vedo molto bene ridotto a barzelletta.
Altro: No, perché dice così? Ho un botto di amici che non lo conoscevano e ora almeno ne hanno sentito un pezzo. Mica sto giocando. Io ho letto e studiato: la scelta tra esistere o non esistere è fondamentale in un mondo dove tutto è apparenza.
Nero: Oh, santo cielo!
Chic: Ha sentito? E adesso me lo dice se il suo Amleto è ancora teatro antico o non è un evento contemporaneo? E, già che si scandalizza tanto, guardi: se questo ragazzo non lo avesse condiviso, magari altre cento persone, invece di ascoltare i quattro minuti del monologo, li avrebbero passati a guardare foto di cibo, di feste, di cani o di gatti; e a mettere inutili “mi piace”. Non le pare avere un senso?
Nero: Già. Bel guadagno! Ma stavamo parlando d’arte, o di telecomunicazioni?
Altro: Scusate, ma il signore, qui, mi pare che l’ha capito: se “essere o non essere” oggi sta sui profili dei miei amici, è come se ‘sto Amleto fosse rinato oggi, no? A parte il fatto che se ne può linkare una cifra di versioni diverse. In italiano, e in molte lingue straniere. Magari si confrontano diverse recitazioni, costumi, scenografie.
Chic: Vede? Nella sua leggerezza, questa generazione ha capito che l’arte esiste attraverso i piani di realtà, in una modalità multimediale, che prescinde dalla certezza che Amleto sia uno e si trovi per forza a teatro. È d’accordo, almeno su questo?
Nero: Secondo me non vi state capendo, tra voi. Uno è convinto che Amleto non sia più l’Amleto perché esistono nuovi media (ma ignora cosa si è perso o guadagnato ad ogni cambiamento); l’altro è convinto che Amleto esista solo se è condiviso (ma ignora cosa sia l’Amleto, e che significatività abbia). Io, a mio modesto avviso, sostengo che solo il testo di Shakespeare sia l’Amleto, e che la migliore cosa sia vederlo a teatro, e fatto bene. In sostanza mi pare che non ci intendiamo granché.
Passa un tipo con la barba che alza un sopracciglio e fa: «Faccio presente che ferita era la benda, non il braccio e che, infatti, la razza degli amleti non si è estinta (toh, eccone un altro) se è vero che Rosenkranz e Guildenstern sono morti perché non sapevano nemmeno chi dei due fosse chi. E Ofelia, la bianca Ofelia – il cui nome non è tratto dalla vita reale come (che so?) Caterina – in fondo, era una troietta. E pure da quattro soldi.»
I tre si scambiano sguardi interrogativi. Condividendo il dubbio che qualcosa gli sfugga, e non sapendo aggiungere nulla di pertinente, riprendono a conversare.
Chic: Scusate se riporto il discorso a noi. Che cosa credete che stiamo andando a vedere? Fotografia, no? Quindi, cosa vi aspettate che ci sia, qui dentro?
Nero: Io l’ho già detto. Spero: buona fotografia; solida: ben fatta. E spero ci sia almeno una presentazione, un video o un catalogo per capire i linguaggi e le storie.
Altro: Io ho letto varie recensioni positive, e ho visto svariate riproduzioni di una cifra di opere che vedremo. Penso che mi piaceranno molto; casomai spero che non mi battano i pezzi se scatto qualche foto per il mio blog.
Chic: No, io invece ho scelto di non leggere assolutamente nulla. So più o meno qualcosa, ma per certo – ve lo dico in anticipo – non vedremo affatto solo fotografia. Non importa, io preferisco entrare di pancia nei lavori. Non mi preoccupo granché di cosa mi aspetta.
Nero: Ma allora, chi le ha detto che questa era una mostra da vedere?
Chic: I miei amici.
Altro: Che è un po’ come leggere recensioni online, calcola.
Chic: Eh no. Io conosco bene i miei amici, i loro gusti, le loro esperienze. Sul web chiunque può dire quel che gli pare.
Altro: Beh però i suoi amici mica sono settemilaottocentoventuno, sparsi in tutto il mondo.
Nero: Uno, nessuno o settemila e rotti, la consistenza del lavoro è qui davanti ai vostri occhi. Se state troppo a pensare al web o alla pancia, è probabile che vi sfugga l’essenziale. Che ci deve stare, a prescindere.
Chic: No no non funziona così. Torno alla sua bussola, se posso. Avete presente Pirati dei Caraibi, il film con Johnny Depp?
Nero: No.
Altro: Ma certo! Con pure Orlando Bloom, Keira Knightley… veramente è una serie.
Chic: Va bene, insomma, a un certo punto – visto che il mondo degli esseri umani è mescolato a quello dei fantasmi – il pirata Jack Sparrow, per sapere dove andare, usa una bussola che non punta a nord, né indica nulla di certo. E che nessun’altro può usare.
Nero: E a che gli serve?
Altro: Ma è una bussola magica, no?
Chic: No, è una metafora – come l’Amleto di prima – però è una metafora che mi piace molto di più. Quando non sai dove andare, segui quella bussola che solo tu puoi interpretare e che ti porta verso il tuo destino.
Nero: Se le piace così! A me pare un po’ una nobilitazione del concetto base di Susanna Tamaro.
Chic: Nooo, e su! Io pensavo a Jauss, Barthes e Foucault. Lei se ne esce con Va dove ti porta il cuore, scusi?
Altro: Scialla, che accollo!
Nero: Eeh?!
Altro: Voglio dire: non si può sentire. Troppo appiccicoso!
Chic: Io guardo l’arte con negli occhi quella bussola che mi attrae verso quello che mi assomiglia, che risponde alle mie vibrazioni.
Nero: E sia pure. Ma mettiamo che oggi è di un umore, e domani di un altro? Se oggi ha delle vibrazioni “così” e domani “cosà”? Che fa l’arte, cambia?
Chic: La mia bussola, cambia.
Altro: Ma vi sentite quando parlate? Vi ci siete chiusi, dentro all’arte. Io mi fido delle comunità; punto. Inutile che mi guardate così. Io seguo il buzz, i trend, le tendenze. Solo così intercetto cosa funziona, cosa mi potrebbe piacere sperimentare. E quasi mai lo trovo nel mainstream. Calcola.
Nero: E va bene, però a certe tendenze bisogna pure dargli il tempo di consolidarsi.
Altro: Può darsi, per un po’. Però poi perdi il treno, zio!
Nero: Zio?
Chic: Lasci perdere, stanno per aprirsi le porte. Ditemi un’ultima cosa: quali artisti sperate di trovare in questa mostra?
Nero: Diciamo gente tosta e capace. Gente come Henri Cartier-Bresson, Edward Weston, Steve McCurry.
Altro: No, a me piacciono tipi strani, obliqui, come Joachim Schmidt, Thomas Allen, Jon Rafman o Natascha Merritt. Avete presente?
Nero: No.
Chic: Ni! Beh, tocca a me: io amo molto le opere di autori come Antoine D’Agata o Ryan McGinley, ma anche di Jack Pierson o Ren Hang; purché i lavori siano forti e nella loro poesia rimanga qualcosa di indefinito.
Nero: Beh, buona luce!
Chic: Buon divertimento!
Altro: Bella!
Passa sempre lo stesso tipo con la barba; alza tutt’e due le sopracciglia e fa: «Qui mi pare che tutti abbiano qualche ragione da vendere, ma tutti intoppino nei passi falsi delle rispettive convinzioni o formazioni culturali. Neo-modernisti cui manca lo swing; tardo postmodernisti da salotto cui manca il senso del farsi reale delle cose; nativi digitali cui manca il senso della profondità e della storia. La storia e la critica, ma soprattutto l’arte – da qualunque tecnica procedano, attraverso quali pratiche e contesti – restano sempre tutte incroci di sguardi, di punti di vista cui serve autocoscienza e autolocazione, prima di trarne ogni conseguenza. Sono domande, non risposte. E spesso sondano pratiche negate alla logica ordinaria. Perciò, per indagarle ci vuole duttilità e disciplina, a poco serve il buon senso, a meno ancora il fatalismo. Ci vuole cura e pazienza perché – chi per vivere ha bisogno dei linguaggi – non afferra facilmente il senso del de-figurare, dell’azzerare gli stessi linguaggi, del revocare dall’interno il già detto. Non si parla correntemente usando la scrittura scenica di Carmelo Bene; non si fotografa per revisionare il già visto come Luigi Ghirri; non si chiacchiera al bar della poetica del mutamento dell’arte zen, o dell’equivalence di Minor White; tanto per dire. Ma – oh, scusate! – non volevo dilungarmi. Lo so che il pistolotto finale è noioso; avete presente Il grande Lebowski dei fratelli Cohen, no? Beh, statemi bene!»
E con un occhiolino se ne va da dove era arrivato. Le porte si aprono: la storia, l’arte e la critica scorrono come i fiumi di gente che entra per vedere la mostra. Su una transenna è rimasta una copia della rivista Il muro, aperta alla pagina Ruota panoramica. Chissà perché.