di Elide Massolari
A rintracciare le origini dell’arte, pittorica ma non solo, c’è un mito antico; ne abbiamo nozione da Plinio il Vecchio, che nel suo Naturalis Historia (XXXV libro) riferisce di una giovane, nota come Fanciulla di Corinto, che per scongiurare il dolore causato dall’imminente partenza del suo amato, ne disegna i contorni dell’ombra stagliata su un muro, proiettata da una fioca lanterna durante la notte. Un rito dalla simbologia pregnante, l’impulso elementare originato dalla necessità di trattenere, di sganciarsi dalla dimesione dell’effimero e della pura astrazione. Un simile tentativo di circoscrizione e reificazione si coinuga, come un binomio, con l’idea di possesso.
Un concetto non dissimile fonda il lavoro del fotografo americano Daniel Duarte, la serie That Which Remains, il cui nucleo sembra condensato in una riflessione sugli oggetti; più nello specifico, sulla potenza arginatrice degli stessi, la dinamica misteriosa che li rende custodi di una profondità indeterminata. La serie in questione è costituita da dittici in cui dei ritratti provenienti da necrologi pubblicati su giornali si accostano a scatti ritraenti diversi tipi di fiori. Il processo creativo risulta ambivalente nella doppiezza “arcaica” e digitale. Da una parte, per le fotografie dei fiori, Duarte si serve di lastre al collodio sfruttando la luce ambientale e dunque un tempo di esposizione più esteso, ponderato. I ritratti che vi associa, di contro, si presentano come sommarie immagini digitali di scarsa qualità; tale discrepanza si palesa sul piano formale ma anche e soprattutto semantico. Il procedimento attuato mediante il collodio implica la creazione di un vero e proprio artefatto, la cui unicità riside proprio nella cura prestata durante la realizzazione; Duarte raccoglie quindi un tempo dilatato, con il quale ha modo di relazionarsi. Uno spazio del pensiero dedito alla riflessione, un rito paziente che non conosce sollecitudini.
Daniel Duarte, Alexandra, diptych, 8×10 alumitype and a digital file, 2014
Daniel Duarte, Howard, diptych, 8×10 alumitype and a digital file, 2014
Il concetto di morte, totalmente derealizzato nell’immaginario sociale, viene proposto That Which Remains sotto una luce diversa, più umana. In questa prospettiva, i ritratti digitali tradiscono il concetto finora espresso: la dimensione artigianale e la cura – che precedentemente assurgevano a metafora del modo in cui il tempo plasma e fonda progressivamente la vita dell’individuo – lascia spazio a fisionomie vaghe, fagocitate da pixel in cui è assente qualsiasi peculiarità che chiarifichi una differenza. Nell’aspetto residuale dei ritratti, da un processo di sottrazione, Duarte rintraccia la sfuggevolezza della memoria, la moderna attitudine all’oblio utilitaristico; indugia tra dissoluzione e permanenza.
Daniel Duarte, Antanina, diptych, 8×10 alumitype and a digital file, 2014
L’individualità, la particolarità della dimensione privata si appiattisce per divenire irrilevante. Per questa ragione si dà come fondamentale la dimensione propria del tempo: antro che accoglie e perciò conserva, organizza, ricompone. In questo tipo di approccio, la cosiddetta necessità di presenza si manifesta per mezzo dell’arte, nello specifico della fotografia; presenza intesa come ricerca e fissaggio di una finitudine.
In copertina: Daniel Duarte, Beatrice, diptych, 8×10 alumitype and a digital file, 2014