di Francesco Rosetti
Una differenza: Renzo Arbore il suo ambiente e la società che vedeva li voleva parodiare, anche se con il gusto del non-sense e dell’assurdo e non con la tagliente satira dandiniana, Boncompagni – forse per cinismo, forse per disincanto – quel mondo si limitava a mostrarlo, senza volerlo minimamente cambiare, ma manco giustificare. Non c’era critica nel gioco dei fagioli, però c’era cattiveria registica verso il pubblico. Corrivo, attraverso figure empatiche come la Carrà e la Bonaccorti, ma perfido nello spingere il pubblico a dare il peggio di sé. Nessuna Quality tv, nessuna satira solo la constatazione un bel po’ scettica del vuoto, che andava vellicato. E infatti solo l’autoparodia salvava prodotti altrimenti brutti. Anche Non è la Rai. Sessismo? Sì, certo, ma anche constatazione scettica dello stesso e, ancora, il minimo indispensabile di autoparodia (l’auricolare di Ambra) per mostrare che tanto lui mica ci investita tanto. Ecco perché poi non avrebbe amato la tivù della gente che lui stesso aveva intuito. Con la De Filippi si fa (noioso) rito realistico (Er paese è così paro paro): lui contava sul fatto che fosse esplicito il gioco. E nello scherzo, anche stupido, era pesante. Credo che in fondo tra le tante maschere che, volontariamente, indossava, quella dello scettico fosse la più sincera, ammesso che in una maschera si annidi la sincerità.
«Avevamo copiato il gioco dei fagioli da una tv privata locale. Ma il nostro era fatto meglio. I fagioli erano più buoni.» Gianni Boncompagni, intervistato da Marzullo.
In copertina: Gianni Boncompagni, Renzo Arbore e lo Scarpantibus. Fototeca Rai. Foto tratta dal libro Renzo Arbore – Se la vita fosse una jam session, Rizzoli 2015