di E.M.
Kaash, prodotto originariamente nel 2002 e ripreso dal coreografo- danzatore inglese dopo circa dodici anni dal suo debutto, è tornato in scena al Romaeuropa festival (il ruolo interpretato da Khan è affidato al danzatore italiano Nicola Monaco). Originario del Bengala, ma nato e cresciuto in Gran Bretagna, Akram Khan fonde nel suo lavoro la danza contemporanea e il kathak2, danza classica indiana, i cui elementi sono disseminati e riconoscibili nell’intera performance (i rapidi movimenti dei piedi, i mudra3 e una colonna sonora originale pervasa da bol4).
Proprio come nel kathak, la coreografia è divisa per sezioni dove, posso riconoscere le diverse connotazioni che caratterizzano il dio Shiva. La figura di Shiva, come qualsiasi altra nel pantheon induista, ha un complesso significato allegorico. è l’asceta e il sensuale danzatore. Il genitore che non esita a decapitare il figlio, ma anche colui che si immola per salvare l’umanità. è, insieme, distruttore e creatore. La sua danza fa scomparire interi universi per riassorbirli e rigenerarli: “per propria volontà Shiva fa destare l’universo sul proprio schermo.”5 Lo schermo è il buco nero del fondale rettangolare ideato dallo scultore e architetto Anish Kapoor. Questo schermo è una presenza quasi soffocante; una finestra sull’infinito che, nel corso della performance, viene delimitata da luci rosse, blu e viola. Da vecchie nozioni di scienze, mi ricordo che un buco nero viene solitamente definito come lo stadio finale di una stella di grande massa con un campo gravitazionale così intenso da non lasciar sfuggire nulla dal suo interno, né materia, né radiazioni elettromagnetiche. Il buco nero inghiotte tutto e quindi anche l’informazione di tutti gli oggetti senza restituire niente, se non tre grandezze misurabili dall’esterno: massa, carica e rotazione. Tuttavia, Stephen Hawking6 ha ipotizzato che qualsiasi cosa venga risucchiata da un buco nero rimarrebbe intrappolata nel cosiddetto orizzonte degli eventi (ossia la zona che si trova attorno al buco nero), per poi riemergere in un universo attraverso alcuni protoni che sfuggirebbero al buco nero grazie a delle fluttuazioni quantistiche (la cosiddetta radiazione di Hawking). Kaash, che in lingua hindu significa se, se solo, potrebbe risultare per alcuni spettatori un’esperienza disorientante, un flusso di energia in cui si alternano -come immagino possa verificarsi all’interno di un buco nero- si rincorrono e si amalgamano perfettamente situazioni di febbrile intensità e momenti meditativi, tuttavia lascia a chi lo guarda un’ampia libertà di interpretazione. Un orizzonte degli eventi da cui mai avrei voluto uscire. In una parola: magnifico.
Kaash – Akram Khan Dance Company
14 ottobre – 16 ottobre 2015
Auditorium Conciliazione
Direzione artistica e coreografia – Akram Khan
Musiche originali – Nitin Sawhney
Scenografia – Anish Kapoor
Danzatori: Kristina Alleyne, Sadé Alleyne, Sung Hoon Kim, Nicola Monaco, Sara Cerneaux
1 Black hole sun: Cfr Soundgarden – Superunknown, 1994
2 Letteralemente “l’arte di raccontare una storia”. Il kathak deriva dalle danze devozionali del nord dell India con le quali i cantastorie narravano gesta epiche e sacre della mitologia hindu.
3 Con il termine mudra, “sigilli”, si indica una particolare gestualità delle dita. Nella danza tradizionale indiana,aiutano il racconto attraverso una codificazione simbolica, in quanto rappresentano determinati aspetti del personaggio o della situazione che si vuole illustrare
4 I bol sono sillabe ritmiche che imitano il suono della tabla. Servono al danzatore per ricordare i movimenti da eseguire e sono parte integrante della performance in quanto vengono solitamente recitate da chi esegue l’accompagnamento musicale. Queste composizioni sottolineano l’abilità del danzatore e vengono eseguite in un crescendo scandito dal battere dei piedi che aumenta assieme alla velocità del danzatore stesso.
5 Cfr il filosofo indiano Ksemaraja. Si veda in particolare: Vasugupta, Gli aforismi di S˙iva, con il commento di Ksemaraja, a cura e traduzione di Raffaele Torella, Mimesis, 1999.
6 Cfr. l’intervento di Stephen Hawking al KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, agosto 2015.