di Vera Viselli
Salgado ha scritto che la fotografia non è una forma di militanza e neanche una professione, ma è un’esigenza che proviene dal profondo di se stesso, ossia la sua vita. Ed è il desiderio di fotografare che lo porta a ripartire, continuamente, ad andare a vedere altrove e a realizzare nuove immagini, sempre e comunque. La sensazione è che la stessa cosa accada per Gianni Berengo Gardin (non a caso, forse, Salgado è un suo grande amico), uno dei più grandi fotografi italiani, ma forse non solo: sarebbe il caso di definirlo più come uno dei più grandi testimoni del suo tempo. Testimone perché, nato nel 1930 a Santa Margherita Ligure, ha raccontato la storia italiana attraverso le sue città, i mutamenti che molto si sono avvicendati nel nostro Paese nel cosiddetto secolo breve: il lavoro contadino, l’avvento dell’industrializzazione, le proteste, la condizione dei malati mentali (documentata anche in un libro, Morire di classe, 1969, firmato insieme a Franco Basaglia e Carla Cerati) e quella, attuale, dei campi nomadi.
In un certo senso, il percorso di questa mostra (le 250 fotografie esposte si suddividono nelle sezioni Venezia, Milano, Il mondo del lavoro, Manicomi, Zingari, La protesta, Il racconto dell’Italia, Ritratti, Figure in primo piano, La casa e il mondo, Dai paesaggi alle grandi navi, che si alternano a 24 immagini in grande formato – e non nel solito 30×40 – scelte e commentate da amici, ammiratori, nomi d’eccezione come Marco Bellocchio, Alina Marazzi, Carlo Verdone, Stefano Boeri, Renzo Piano, Vittorio Gregotti, Mimmo Paladino, Alfredo Pirri, Domenico De Masi, Ferdinando Scianna, Sebastião Salgado, Luca Nizzoli Toetti, Maurizio Maggiani, Roberto Cotroneo, Peppe Dell’Acqua, Mario Calabresi, Michele Smargiassi, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi, Marco Magnifico ed Alice Pasquini) sembra uno storyboard di un documentario ideale: si parte da Venezia, fotografata dagli anni ’50 ai ’70, quando ancora non era invasa dal turismo ma si presentava ai suoi occhi come un ambiente che accoglieva i riti eterni della comunità che la popolava – matrimoni, comunioni, baci e passeggiate. Berengo Gardin parte da lontano per arrivare all’essenza delle persone, perché quando deve raccontare una storia cerca sempre di iniziare dall’esterno: mostrare dov’è e com’è fatto un paese, entrare nelle strade e nei negozi per finire dentro le case, a fotografarne gli oggetti. Un percorso crescente, il suo, buono per scoprire un villaggio, una città, una nazione e per conoscere l’uomo. Un uomo anche nella sua condizione di malato, come dimostra il suo reportage nei centri per i malati di mente: un lavoro non sulla malattia ma sulle «condizioni di violenza che negavano dignità al malato». Non bisogna, però, aspettarsi compassione da queste foto.
Berengo Gardin non vuole cadere nel compassionevole, bensì vuole rendere nota quel tipo di vita, assolutamente reale. Questa sua volontà di documentazione della verità lo ha portato a vivere il lavoro operaio nelle fabbriche (grazie in primis ad Olivetti) e a dover assistere all’approdo/assalto del turismo da crociera nella sua amata Venezia: «Quei giganti mi ossessionavano. Mi svegliavo intorno alle quattro del mattino per trovarmi all’alba nei punti strategici e catturare i mostri mentre depredano visivamente Venezia. Ero turbato soprattutto dall’inquinamento visivo». Di nuovo alle prese con la dignità, quindi, anche se si tratta della dignità di una città. Ed è proprio questa che ha scelto di cercare per tutta la sua vita: la dignità dei luoghi e degli uomini, della loro condizione e del loro lavoro. Per finire, ovviamente, (o iniziare, come preferite) con la dignità della fotografia. È questo il senso del titolo della mostra “Vera fotografia”: vera perché fatta al momento, non ritoccata, quasi fosse un’estensione ad interim del neorealismo zavattiniano. Con il tipico timbro apposto dietro ad ogni stampa, Berengo Gardin porta avanti, con fermezza, l’istanza dell’analogico, mentre in cuor suo desidererebbe abolire del tutto il digitale. Sembra un po’ la riproposizione della vecchia querelle italiana Strapaese contro Stracittà, o di quella più globale Antichi vs Moderni; fatto sta che è totalmente sacrosanta la sua preoccupazione rispetto alla perdita: se una fotografia non viene stampata è una fotografia persa. E con essa si perde la memoria, così come la verità.
Gianni Berengo Gardin. Vera Fotografia. Reportage, immagini, incontri
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194 – Roma
A cura di Alessandra Mammì e Alessandra Mauro
19 maggio – 28 agosto 2016
Promossa da Roma Capitale. Prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con Contrasto e Fondazione Forma per la Fotografia
In copertina: Venezia, 1960 © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia