di Gaia Palombo
La città, raccolta nel torpore notturno, è una distesa silenziosa di arterie illuminate, contenitore di vetro e metallo riempito di vuoto. Le luci ne tracciano l’ossatura, così da renderla più vera, quasi leggibile. La città dorme, sembra aver arrestato la sua corsa; gli abitanti dei non-luoghi della notte invece non si fermano, il loro intento è quello di eguagliarne la velocità. Al cospetto di questa avanzata impietosa l’uomo è in perenne competizione: il progresso incede a grandi passi e al mutamento continuo che ne deriva egli non è mai pronto: niente è mai abbastanza nella corsa con la città che sale.
Lay off è un progetto sulla sospensione e sulla giusta distanza di uno sguardo discreto, orizzontale, posato su un tempo e uno spazio in cui il piano sociale e quello esistenziale si contaminano. Questa modalità di sguardo è necessaria affinché la macchina fotografica sia in grado di interrogare la realtà, senza dominarla, instaurando un dialogo.
Lay off sembra trovare il suo carattere fondante su una libertà impartita – si pensi a una pausa dal lavoro o alla fine di un turno – soggetta, per sua stessa natura, ai medesimi, prestabiliti ritmi che connotano il tempo del lavoro; quest’ultimo, tempo del fare per vivere, va a sovrapporsi con quello del vivere per vivere.
Se è vero, come insegna Gilles Deleuze, che l’elemento di un grande complesso meccanico non cessa di essere tale neanche quando materialmente non ne fa parte, la frase «On n’échappe pas de la machine» (G. Deleuze, Kafka, per una letteratura minore, 1975) diventa un mònito incalzante, riscontrabile negli scatti di Benedetta Ristori. La giusta distanza, come definita sopra, si rivela un espediente di gran lunga superiore a un più classico reportage il cui rischio è quello di incorrere più facilmente nello stereotipo dell’uomo come mero animal laborans.
In Lay off ravvisiamo piuttosto il tentativo della fotografa di accostarsi al soggetto lasciando che tra sé e quest’ultimo intercorra uno spazio del pensiero in cui è possibile ricercare l’azione straniante del dovere sociale sul tempo del vivere. Sarà per questa ragione che Benedetta Ristori stenta a restituire delle vere e proprie azioni; al contrario, la costruzione dell’immagine si fonda su una serie di momenti vuoti, forse di passaggio, come un preludio di ciò che potrebbe accadere a breve. Pregni di questa percezione di attesa e interruzione sono anche gli ambienti desolati e, più sorprendentemente, gli scatti in cui sono ritratte persone al di là di un bancone, sul posto di lavoro, immersi dunque in un contesto che li vorrebbe in piena attività.
Ogni micro-storia raccontata in queste fotografie è raccolta inevitabilmente da una macro-storia che accomuna e a cui l’uomo sembra destinato. Tante anonime solitudini, tante piccole storie del quotidiano che abitano questa nuova dimensione ultrapostmoderna, sottratta alla naturale alternanza del giorno e della notte; la perdita del confine si estende a macchia d’olio su tutti i campi esperibili fino ad annullare ogni tipo di dinamica originaria. Uno scenario in cui sembrano incarnarsi, per eccesso, le parole sopracitate di Deleuze: la macchina non è un’entità concepibile separatamente, è lo stesso organismo sociale di cui siamo parte attiva. Come inestinguibile circolo vizioso, il prodotto di tale sistema è il desiderio – subìto e poi, per costrizione, provato –, lo stesso che Calvino ha saputo restituire nella sua Anastasia, città invisibile dal fascino ingannatore.
«[…] Ma con queste notizie non ti direi la vera essenza della città: perché mentre la descrizione di Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.»
Italo Calvino, Le città invisibili, 1972