di Daniele Fiacco
Ho riscritto l’incipit di questo reportage sul Folsom così tante volte che ho scelto di cancellarlo. Troppo facile raccontare un fatto usando scampoli autobiografici che dovrebbero giustificare il perché tu sia lì, insopportabile la psicologia dell’io narrante che vuole posizionarsi culturalmente nell’evento narrato, superflue le memorie sulla città e tutte le premesse che non fanno testo, ma prosa ben acconcia. Vorrei dire un paio di cose sul Folsom così come mi vengono in mente, si fa per dire.
Uno. Come ci si veste per andare al Folsom? Pelle, latex, rubber, ma anche sport, capi fetish di ogni forgia, dalle tute da sommozzatore ai costumi da cavalla popputa e tutto ciò che è legittimato dalle boutique di Schöneberg, templi del gusto aggiornati sugli stereotipi del fighismo finocchio più in voga, ma anche tappa obbligatoria se vuoi andarti a divertire nei club adiacenti, i quali impongono un dress code rigoroso. C’è una certa insistenza machista nel design e nella pubblicità di questi indumenti per cui non si bada a spese. E lo stile maschile come ne è influenzato? Ben venga la libertà di divertirsi come donne con gli outfit, ma l’effetto inevitabile è che più un uomo cerca di apparire macho e più appare per la checchesca donna mancata che è. Sarà pure cavernicola, ma sempre una Barbie resta. Perché mentire è impossibile, soprattutto dietro alle maschere.
Io ho optato per: cappuccio in neoprene di Mister B (il quale quest’anno festeggia venticinque anni con uno stand a dir poco faraonico), bomber Alpha Industries, maglietta sintetica Manstore con cappuccio, cintura in vera pelle italiana, jockstrap Berlin Wagner con cerniera, pantaloni superskinny strappati da me, anfibi Invaders a dieci buchi (con un bel cratere di vescica da Doctor Martens che mi fa leggermente zoppicare e, dogmatici, calzini Adidas lunghi e neri). Sobrio, direi.
Due. Sono arrivato alle 12:00. Stavano ancora montando le bancarelle, i baracconi col bussolotto dell’offerta libera non erano ancora arrivati. Poche persone ancora in giro. Un uomo mi ha fermato chiedendomi dove avessi comprato il mio cappuccio per succhiare cazzi, il quale era, a suo dire, più cool di quello in lycra che aveva lui. Mi sono molto divertito a spiegargli che, pur apparendo piacevole al tatto, è una vera tortura per la faccia che non respira e le deformità che la strettezza del tessuto procura, ma quel senso di soffocamento e costrizione è parte del prezzo che costa, come mi spiegarono i commessi chierici del santuario di Mister B. Al di là di questi primi candidi approcci, ho apprezzato molto l’atmosfera da sagra della salsiccia che mi ha ricordato tanto quell’Italia di paese a cui sono affezionato.
In attesa che la gente arrivasse mi sono messo a curiosare in una bancarella di diavolerie per sadici. Ho comprato un paio di forbici d’acciaio con chiusura a scatto e anelli da presa per torturare la lingua, la quale con quell’aggeggio ti resta a penzoloni e sbavi, ma sono buone anche per seviziare capezzoli e testicoli, ha confermato la commessa. Un tocco di luminosità metallica non guasta tra i miei soprammobili, ho pensato, rallegrandomi di essere stato il primo cliente della giornata.
Tre. Mentre la gente affluiva copiosa e cercavo di tenere a bada la mia cocciuta misantropia, ho notato la massiccia presenza degli italiani. Le parlate avevano prevalentemente accenti del Nord, ovvero la terronia dell’Europa che conta. L’intonazione era a tratti melensa, fastidiosa, la parlata delle cule borghesi ammutolite davanti a un altare ma con due lire in tasca per rifoderarsi di pelle l’ipocrisia e il lardo e andare a fare le emancipate altrove, ignare ad arte che mentre loro si divertivano, lontane dallo stigma del chiostro, qualcun altro stava lottando perché loro avessero la libertà di farlo. Le domande che mi sono posto sui miei compatrioti al Folsom sono: 1) Quanti di questi avranno votato Salvini? 2) Chi di loro avrà chiare posizioni circa la separazione tra Stato e Chiesa? 3) A quante persone terranno nascosta la loro partecipazione al Folsom? 4) Qual è il livello di precisione della mia presupponenza?
Quattro. Il Folsom è in effetti una divertente sfilata di moda per omosessuali metropolitani e non, ma anche per etero, trans, bisex, asessuali e fluid gender e tutte le nomenclature inventate dai pignoli per definire l’imprendibile, comprese le mamme. Berlino appare come un pazzo laboratorio di identità, ma se osservi con attenzione vedi anche come ogni look sia un serializzato collage d’idee altrui con regole quasi dittatoriali che spesso escludono proprio lo stile, ovvero la forma che tu stabilisci. Il mondo leather primo fra tutti, non solo a Berlino, è rimasto a Tom of Finland, massimo a Scorpio rising o a Cruising, al culmine dello sperimentalismo. A naso direi che la fascia 40/50 sia quella con più disinvoltura e idee, in questo festival di strada. I ventenni mi hanno annoiato molto, dato il grande successo del Puppy style che ti fa pensare: “Ma i ventenni, tutte cagne?”. Cagne abbandonate a se stesse oppure al guinzaglio dei padroni orgogliosi. C’era anche un’area in cui potevano giocare con le palline e i pupazzi. Tutti liberi di essere schiavi, finalmente. E gli occhi vispi di uno di loro, talmente entrato nel ruolo che ti veniva voglia di grattargli le orecchie della maschera da pastore tedesco, dietro alla quale abbaiava festoso. Bellissima l’immagine colta su un marciapiede, con una giovane mamma che abbracciava la sua bambina e insieme si divertivano a guardare le cagnette azzuffarsi scalmanate. Scene che sono la logica conseguenza di come il business e le libertà civili si sposino felicemente in una città come Berlino, faro d’Europa per la culturizzazione della sessualità dalla Repubblica di Weimar a oggi. Ma anche spie di come la “vita da cani” sia stata rivalutata, godendo i cani oggi di più garanzie di un impiegato a busta paga.
Cinque. Sono entrato in un bar, si pagava anche per pisciare. Ben più lungimirante è stata la birreria di fianco, una fila che non ti dico, con gli amanti del pissing che si accucciavano un po’ ovunque. Uno mi ha infilato di prepotenza la testa nell’orinatoio, ma sono risucito a dirottare il rivolo e lui “Ma perché? Dai!”, sempre più aggressivo e come se volesse approfittare dell’inarrestabilità della pisciata inoltrata. “Ho una storia con l’orinatoio”, gli ho detto, “Scusa”. Poi dal cesso, con un po’ d’impegno per schivare le mani radioattive dei segaioli in ginocchio dietro agli avventori lì a svuotarsi, sono sceso nella dark room. L’aria era come quella della metropolitana, stordente, senza ossigeno, col preciso scopo di sballarti il cervello, come se non bastassero le droghe che si ingurgitavano lì dentro. In effetti era più forte l’odore di popper che quello delle mucose birichine sapientemente sbullonate. Non mi sono addentrato nel buio, troppo sudiciume, mi sono fermato dove c’era un po’ di luce che illuminava un paio di uomini appecorati in attesa di qualcuno che li montasse. A giudicare dai gemiti, qualcuno si divertiva, ma, a differenza di quelle sgallettate, non prendo droghe ne’ pratico sesso non protetto per partito preso, dunque non avevo molto da fare, a parte evitare approcci come mine anti-uomo. E poi la vista è importante e a quanto vedevo, al Folsom, non mi tirava proprio. Ma mi piaceva vedere come gli altri sfogassero la libidine in quei pertugi. A giudicare dagli sguardi schizzati di quelli che sfilavano, con quella vacuità famelica negli occhi che gemono un eterno “E ora? E ora? E ora?”, come se il bello fosse sempre rimandato nell’attesa messianica di colui che verrà, ovvero la frenesia di mettere la mano su cazzi sempre più grossi e sempre più immaginari che alla fine non te ne fa godere neanche uno vero, almeno in quel fottitoio seminterrato qualcuno si toccava.
Dei preservativi lì – e ovunque – non volevano saperne. Ti dicono di essere on prep, che più o meno velatamente vuol dire bareback, ovvero a pelle. Una piaga sociale? La prep è una gran cosa per le coppie sierodiscordanti e per tutelarsi dagli incidenti (una delle mode che sta prendendo piede, lo stealth, consiste nel togliersi il preservativo a tradimento e pazienza se la carica virale non è pari a zero. Un’infamia). Ma sul campo – e poco se ne parla – la prep è considerata a torto un sostitutivo del condom, della serie: prendi medicinali tutti i giorni come un sieropositivo per evitare il contagio da hiv esponendoti a tutto il resto, tanto il resto si cura. Risultato? Il diffondersi sempre più violento di tutte le altre malattie veneree. E intanto hai ingoiato bombe atomiche per qualcosa che neanche ti sei preso.
Sei. Poi mi ha scritto mia madre su Messenger, “Quando sei partito?”, “Venerdì, sono al Folsom”, allegando la foto del mio costume, “Mi sembri Batman, sei a una festa?”, “No, è un festival”, “Festival di che?”, “Del Capitalismo, come tutto” e le ho mandato la foto di un ragazzo incatenato a tubi di metallo che riceve il bacio di un altro. Mi fa: “Non mi dire che quel poveraccio appeso tipo prosciutto ha dovuto incatenarsi in quel modo per strappare un bacio al suo amato!”. “Mamma, si chiama Bondage”, “Tuo padre appeso così lo vedrei bene, che ne dici?”. Sta a vedere che se torno all’edizione 2020, già in fase di organizzazione, ci porto anche mia madre e mio padre e si divertiranno come pazze! Quei due non erano i soli a esibirsi in uno show a base di nodi complicati. C’era un ragazzo incaprettato con un cappuccio senza buchi per vedere e respirare. Il suo master lo accarezzava di tanto in tanto sulla testa e il fondoschiena. “Sa che sei tu?”, gli ho chiesto. “Sì, lui si fida totalmente di me, sa che non permetterei a nessun altro di fargli ciò che non vuole e riconosce la mia mano anche senza vedere”. L’ho trovata una bella dichiarazione d’amore, “Io mi fido di te”.
Sette. Tanti gli ammiccamenti in quell’avanti e indietro. Sempre eleganti e simpatici. Ho controllato Grindr, messaggi nella media, e un appuntamento con un bel ragazzo turco poco lontano da casa mia, ma mi è saltato agli occhi il messaggio di un italiano: ”Peccato che tu non ti sia unito, ho fatto un pissing show con cinque uomini. Ora torno in albergo, ho bisogno di bere acqua”. Alle ore 20:00 e spicci il tasso alcolico e la generale atmosfera di “fattanza” era palpabile. Un fotografo britannico, che mi aveva fatto qualche scatto e mi aveva raccontato la deludente situazione londinese, coi locali storici che chiudono e quel poco che c’è rimasto, mi aveva detto che avrebbero tirato avanti fino a tardi e che lo spettacolo a cui avrei assistito sarebbe stato un andirivieni di orde maialesche che saltavano da un party all’altro. “Ma no, anche i party no, proprio non ce la faccio alla mia età”, mi sono detto.
Così, Otto, mi sono allontanato, c’era un’aiuola con dei cessi chimici poco frequentati laggiù. Guardavo l’erba illuminata da un sole agli sgoccioli, ma persistente, come se non volesse tramontare. Mi sono levato il cappuccio, mi sono riposizionato la faccia specchiandomi nei finestrini di un’auto. E mi sono chiesto, che cos’è Berlino sotto l’erba? Un curioso viaggio che odora di marijuana? Una cicatrice con un cerotto arcobaleno sopra? Un terreno fertilizzato per solitudini stilose? Un bunker segreto? Il lato nascosto del luna park a cui hai diritto in quanto contribuente a cui l’economia globale ha legittimato il feticcio? Oh, se quei raggi di sole avessero potuto rispondere. Se avessi potuto fermarne il movimento e strappare una parola anche a loro. Poi ho visto altre persone affacciarsi alle finestre, altre maschere avvicinarsi alle transenne. E quegli ultimi raggi danzavano da soli, indifferenti a tutti noi.