un racconto di Sara Maria Serafini
Bevo del succo di pompelmo direttamente dal cartone.
Sheila se ne sta a testa in giù. Il peso del corpo scarica tutto su collo e avambracci. Una specie di posizione yoga pro spermatozoi lenti. Ha anche un nome, ma non riesco proprio a ficcarmelo in testa. Ci penso da mezz’ora. Una roba a metà tra tisana e savana, comunque.
Muove le gambe lunghe, in maniera ritmica. Divarica e chiude, lentamente. Sembra un animale morente che affida i suoi ultimi minuti di vita a una stronzata new age.
La luce del primo mattino disegna delle striscioline luminose sulla superficie di questo corpo che conosco a memoria. Un corpo vuoto. Poi riempito a metà. Di nuovo vuoto.
Da quest’anno le persone sono scatole. Acquistano valore per quello che contengono. Sheila è il cercatore. Io il suo aiutante, un tizio che la segue. Lei rintraccia fluidi mobili, vite in crescita. È una sensitiva. Ha i poteri amplificati dei disperati.
Lascio il cartone del succo sul tavolo, la base appiccica un po’ sul ripiano. Mi avvicino.
Divarica e chiude.
Le gambe sono la parte di lei che ti fa venire voglia di scoparla. Anche ora che è a comando.
«Allora, scendono?»
Mi guarda dal basso, sgrana un po’ gli occhi senza interrompere la respirazione. Ci crede davvero.
Vista da qui è Sheila di quando ci siamo conosciuti. Con la borsa di pelle marrone a tracolla, la coda tenuta alta da un elastico sottile, la camicetta verde a pois appena trasparente. Il respiro sempre sporco di ritardi cronici.
A volte il modo in cui viviamo ci racconta il futuro, ma noi non ascoltiamo.
Noi.
Chissà dove diavolo siamo finiti noi di prima.
Noi che facevamo il giochino stupido di chiamarci per iniziali puntate.
Io ero T., lei L., pronunciato El.
Una sera di ottobre di mille anni fa tornavamo in auto da una notte ubriaca di vodka. Eravamo seduti sui sedili di dietro dell’auto di quel coglione di Dan. Pensava di sapere sempre un sacco di cose, Dan.
Ci parlavamo in codice. Gli altri, davanti, ascoltavano Nevermind a bassissimo volume. Le gomme scivolavano sull’asfalto liquido.
Ho chiesto a Sheila quante stelle lucide ci dividevano davvero. Ha risposto: «Undici.»
«Ne è sicura L.?», le ho chiesto.
«Abbastanza, T.»
Ho creduto che la vita fosse esattamente io e Sheila in quell’auto. Nient’altro.
Adesso penso che anche questo cazzo di bambino non ci vuole. Chiaramente non glielo dico. Non ho voglia di discutere. Non ne ho il coraggio.
Da vicino i piccoli buchi di cellulite che la rendono umana sono più visibili. Ne osservo la trama mentre le gambe continuano ad allontanarsi e avvicinarsi.
Con uno scatto mi piego verso l’interno della coscia destra e ricalco con la lingua il disegno di quella costellazione difettosa. Le lascio sulla pelle una scia di saliva che odora di succo di frutta. Una scia acida.
Infilo la giacca.
«Vado.»
Si dà una spinta piccola poggiando un piede contro il muro e mi cinge la vita con le sue gambe infinite. Una tenaglia.
«T.»
Mi fermo un attimo, di schiena. Il tono della sua voce, caldo, è quello che rimane.
«Vieni.»
In copertina: Vieni, illustrazione realizzata da Sara Maria Serafini