Un incontro speciale quello che si è svolto nel pomeriggio di ieri all’Hotel Bernini di Roma. La presentazione del festival Umbria Jazz – quest’anno alla 45esima edizione – ha visto come protagonista un mito vivente del jazz e della musica internazionale, Quincy Jones, introdotto da Renzo Arbore che subito lo definisce l’inventore del Jazz moderno.
Quincy Jones ha compiuto 85 anni quest’anno e la serata inaugurale dell’Umbria Jazz, venerdì 13 luglio, sarà un evento di festeggiamento, “Uno spettacolo come non si è mai visto prima” – parola di Jones – dove sarà ripercorsa tutta la carriera del jazzista, con tantissimi ospiti – Dee Dee Bridgewater, Noa, Gil Dor, Patti Austin, Take 6, Ivan Lins, Alfredo Rodriguez e Pedrito Martinez, Paolo Fresu – e l’Umbria Jazz Orchestra diretta da John Clayton, con Nathan East e Harvey Mason, sugli arrangiamenti dello stesso Jones.
Durante l’incontro con la stampa, Jones si lascia andare divertito alle domande e arricchisce ogni risposta con aneddoti e storie emozionanti con cui sfoglia una vita intera dedicata alla musica: polistrumentista, arrangiatore, produttore, iniziò a suonare da ragazzino, in piccoli locali, assieme a Ray Charles, di poco più grande di lui, per racimolare qualche soldo – ha raccontato – suonando qualunque tipo di musica. Da lì ne sono accadute di cose, il ragazzo di Chicago è diventato una star planetaria che ha lavorato con i più grandi nomi della musica e che ha lottato per cambiare il mondo con la musica stessa, forte di una verve da filantropo: basti pensare a tutti i progetti di beneficenza realizzati, dal brano We are the world, per le vittime della carestia in Africa, alla Listen Up Foundation per la costruzione di case per la comunità nera in Sudafrica, alla sua partecipazione al progetto ideato da Bono Vox per sanare il debito di molte popolazioni africane. Quando parla di questo progetto ride e confida un ricordo che ben rappresenta il suo carattere sopra le righe: Giovanni Paolo II li ricevette a Castel Gandolfo, lui era accanto a Bob Geldof e commentò le scarpe rosse del Papa, dicendo che erano proprio scarpe da pimp, da pappone. Il Papa sentì e risolse con un sorriso, Jones ancora ci ripensa e insiste, più divertito che imbarazzato: “Lo dicevo solo per scherzo! Non avrebbe dovuto sentirlo!“.
A chi gli chiede cosa sia il jazz, risponde che “Jazz significa libertà” e per questo nel corso degli anni è stato sempre pronto a scommettere, a provare nuove strade, a variare, in tipico stile jazz. In quest’ottica ha spaziato in ogni campo della musica e dello show-biz, incidendo brani indimenticabili e contribuendo alla nascita di giganteschi miti del pop. Fu lui ad ingaggiare Will Smith per la sit-com Willy, il principe di Bel-Air (di cui ha scritto anche la sigla), a sostenere il fascino di Donna Summer, a far sì che Michael Jackson venisse riconosciuto come the King of pop. “Non ho mai fatto le cose per soldi o per rincorrere il successo. Ho puntato solo su ciò in cui ho creduto, sulle cose fatte con il cuore. Sono stato molto criticato per aver prodotto Thriller di Michael Jackson. Ma poi quel disco ha venduto 130 milioni di copie!“.
Jones, che nel 2000 ha condotto una cattedra di African-American Music ad Harvard, a tratti trasforma la conferenza stampa in una lectio magistralis dove la musica si identifica come una chiave di volta socio-antropologica. “Siamo tutti connessi dalla trama di un’unica grande cultura, abbiamo delle radici comuni che ci uniscono, che si evolvono“, ad esempio, ha spiegato “il bebop è arrivato fino all’hip hop, ma non si tratta di una storia di decenni, è una storia iniziata mille anni fa. Il rap era a Chicago già negli anni 30, si rifaceva ai canti degli schiavi ma quei canti, a loro volta, venivano dall’Africa, avevano attraversato un Oceano. Negli Stati Uniti dovrebbero istituire un Ministero della Cultura, le persone non sanno che la break dance nasce dalla capoeira brasiliana e da Cuba…“.
Un giovanissimo musicista gli chiede consiglio su come proseguire i suoi studi verso il jazz e Jones gli dice di non perdere mai di vista le radici, di rivolgere attenzioni a quelli che erano già i suoi punti di riferimento: Ella Fitzgerald, Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderley. Quando lo sguardo si fa lucido, nostalgico, lui riprende incalzante e, a proposito di radici, scherza dicendo “Sento di avere anche un po’ di radici italiane, perché sono nato lo stesso giorno di Michelangelo…” e da lì passa a omaggiare alcuni grandi musicisti italiani con cui ha lavorato – Romano Mussolini, Piero Piccioni, Armando Trovajoli, Ennio Morricone – a proposito di quest’ultimo, suo collega nel mondo delle colonne sonore, ha ricordato la realizzazione della cover di The Good, the Bad and the Ugly con Herbie Hancock.
Le parole per raccontare questo incontro potrebbero essere infinite, ma più di tutto si può dire che Quincy Jones è certamente un visionario. E stando lì, seduto su quella poltrona imponente, con la sua camicia e il suo foulard coloratissimi e le sue scarpe bianche con linee nere, vede ancora una volta lontanissimo. Dove lampeggia trepidante il jazz contemporaneo? Jacob Collier, Andreas Varady e, ancora, nella musica della francese Zaz, della quale ha prodotto tre brani nell’album Paris. “E’ un talento“.