di Fabrizio Moscato
Le storie e il calcio sono due buoni argomenti per convincermi a scrivere per questo numero speciale de IL MURO: da quando mi ricordo il racconto è una dimensione che si è sempre intrecciata alle traiettorie del pallone, nutrendo la fantasia con aneddoti utili a creare l’epica del calcio, più che la sua effettiva cronaca.
Un po’ deve aver contribuito anche il dato anagrafico, perché per un amante del calcio la seconda metà degli anni ’70 è stata un buon periodo in cui nascere: giusto in tempo per non perdersi il mitologico calcio degli anni ’80, quello dell’apertura agli stranieri, delle coppe europee, del mundialito e di Pablito, di Maradona, Platini, Rumenigge, Falcao, Socrates, Zico, Junior e dei tanti calciatori anonimi riconoscibili solo grazie alle figurine Panini. Allo stesso tempo, essere poco più che quarantenni oggi, significa non faticare troppo ad orientarsi nel calcio delle pay tv, del campionato spezzatino in diretta sul cellulare, del calciatori superpagati che sfoggiano fidanzate modelle, tatuaggi e acconciature improbabili.
Certo, qualcosa ci siamo persi: il calcio pionieristico, quello del secondo dopoguerra, del grande Torino e dei miti della generazione precedente: Rivera, Mazzola, Gigi Riva, Italia Germania 4 a 3.
Per quelli come me poi, che hanno avuto in sorte la passione per una squadra come la Lazio, essersi perso gli anni ’70 comporta un danno aggiuntivo. La mia infatti, è la prima generazione di laziali a non aver mai visto giocare Giorgio Chinaglia, per molti uno degli attaccanti italiani più forti di sempre, per i laziali il simbolo, l’incarnazione vera della lazialità; anche per quelli nati nella seconda metà degli anni ‘70, che hanno visto i suoi gol solo attraverso filmati di repertorio.
Spiegare questo fenomeno non è possibile, se non tenendo in considerazione l’importanza del racconto che di Chinaglia hanno fatto i suoi tifosi, travalicando qualche volta l’effettivo valore tecnico (la Lazio ha schierato negli anni giocatori forti quanto Long John, che non si sono mai avvicinati al suo mito).
Di Giorgio Chinaglia è stato detto tutto: giocatore tecnico e potente, caratterialmente forte al limite della prepotenza, stoffa del leader in campo e fuori. Solo uno così avrebbe potuto portare la Lazio dalla serie B a vincere il suo primo storico scudetto, nel 1974 contro gli squadroni del nord. Certo, in quella squadra non c’era solo un formidabile centravanti: Pulici, Wilson, Re Cecconi, Frustalupi, D’Amico, l’allenatore Maestrelli, tanto per fare qualche nome, furono protagonisti assoluti.
Perché allora quello sarà sempre ricordato come “lo scudetto di Chinaglia”? Cosa ha rappresentato “Giorgione” per tutti quelli che, dopo di lui, hanno seguito la Lazio?
Ed ecco che torna il racconto, con le storie di campo, gli aneddoti che diventano leggende metropolitane, le immagini e le foto. Soprattutto le foto.
C’è ad esempio la foto più iconica, con l’omone urlante che punta il dito contro i nemici inferociti, sul volto l’urlo vittorioso di chi ce l’ha fatta per l’ennesima volta. Ma ce n’è anche un’altra, magari famosa anch’essa, ma che io non avevo mai visto fino al giorno in cui Giorgio Chinaglia ci ha lasciato per sempre, qualche anno fa.
Come tutte le immagini di quel periodo, è in bianco e nero: sul muro una scritta, fatta da una mano malferma, dice “Laziali Bastardi”. Roba da far digrignare i denti e stringere i pugni per chi a Roma ha scelto i colori del cielo.
Ma subito sotto la scritta, nella foto, c’è lui.
Giorgione legge il giornale, non guarda l’obiettivo, la macchina fotografica non esiste. Non guarda la scritta alle sue spalle, non esiste neanche quella. E se esiste, meglio così: è la prova che qualcuno, bomboletta spray alla mano, ha sentito bruciare forte nel braccio la frustrazione per la dirompente lazialità che lui ha saputo risvegliare, nutrire, ripagare. Forgiare.
Giorgio è la lazialità. Una lazialità che si basta, che non ha bisogno di essere definita da chi non la capisce, anzi la contesta. Il più amato di sempre per i suoi, il più odiato di sempre per gli avversari. Solo lui può fotografarsi sotto una scritta del genere, perché solo con la sua presenza quella scritta non è più offensiva, anzi è quasi una rivendicazione.
Una lazialità sbattuta in faccia a tutto il mondo, noncurante del mondo stesso.
Dopo queste due foto ce ne sono state centinaia, migliaia, che hanno immortalato la lazialità, l’hanno raccontata, testimoniata, custodita. In molte di esse c’è ancora lui, Giorgione, anche se mai più riuscirà ad esserne interprete capace come quando prendeva a pallonate anni di frustrazioni, sue e del suo nuovo popolo, tra il Galles e la Serie B, a servire tavoli o a guardare i campioni sempre e solo con la maglia a strisce.
Nell’album dei ricordi laziali ci sono foto di abbracci disperati, esodi oceanici e imprese titaniche, anche quelle relegate nelle ultime righe delle cronache sportive. Ci sono foto di successi a colori, maglie scintillanti come le coppe internazionali, e ancora uno scudetto, che stavolta non è “quello di Chinaglia”. Nel secondo scudetto Long John non c’è, ma nessuno, nemmeno nato dopo il 1974, quel 14 maggio del 2000, con il sole di Roma sulla pelle e la pioggia di Perugia nelle cuffiette, ha potuto evitare di pensare a lui, almeno per un momento.
A distanza di più di quarant’anni dall’ultima partita di Chinaglia con la maglia biancoceleste, c’è ancora la Lazio e non c’è più Giorgione, ma il suo mito non è stato offuscato: non ci sono riusciti i successi, i tanti campioni dell’era Cragnotti (troppa grazia, per chi prima di Chinaglia si attaccava a miti antichissimi per riempire il proprio pantheon) e nemmeno le tristi vicende giudiziarie che il bomber del ’74 dovette affrontare. Troppo forte quell’amore, troppo forti le gioie regalate da quell’uomo ad un intero popolo, in campo e fuori. L’omone col dito puntato e il sorriso di sfida ormai non può più andarsene lontano, nemmeno per segnare caterve di gol a fianco di Pelè e Beckembauer, negli Stati Uniti.
Oggi che Chinaglia non c’è più, di lui resta il ricordo di uno scudetto.
Della sua storia resta il racconto dei suoi tifosi. Anche di quelli che non c’erano.