recensione e intervista a cura di Jamila Campagna
Il 2016 è l’anno del 40esimo anniversario della pubblicazione del primo album dei Ramones, la band newyorkese che ha portato la cultura punk dalla scena underground al mainstream, influenzando un’infinità di aspiranti musicisti, incoraggiandoli a buttarsi sul palcoscenico senza paura, pieni di buone energie e di coraggio, umano e musicale.
40 anni di Ramones – 40 anni di Punk è l’evento organizzato dall’Orion Club di Roma per la serata di sabato 26 novembre. Le due principali tribute band romane dei Ramones, The Romanes e The Romanez, si alterneranno sul palco in una serata evento speciale per celebrare i quattro caschetti del punk Made in NY. A queste si aggiungono video proiezioni di 40 Anni di Punk – dedicate non solo ai Ramones, ma anche a gruppi quali Dead Boys, Clash, The Damned, Sex Pistols, The Stranglers – dj set che continueranno per tutta la notte e ospiti del mondo della musica e non.
Punta di diamante della serata sarà lo special guest per eccellenza George DuBose, fotografo ufficiale dei Ramones, qui anche nelle vesti di curatore della mostra itinerante ALL RAMONES POP UP EXHIBITION che verrà presentata sabato sera al’Orion. Circa 70 foto racconteranno la storia dei Ramones, tra esibizioni live, copertine di album e immagini candids: George DuBose ha raccolto un incredibile archivio che comprende non solo le fotografie scattate da lui stesso per i Ramones, ma anche una selezione caleidoscopica di immagini realizzate da fotografi quali Bob Gruen, Jenny Lens, Mick Rock, Roberta Bayley, che documentarono le performance della band sin dagli esordi. C’è un dettaglio che rende questa mostra molto punk: le foto saranno esposte sulle pareti dell’Orion e i fan presenti al concerto potranno “liberarle”, portandole via al termine delle esibizioni.
In dirittura di arrivo dell’evento, abbiamo intervistato George DuBose, ritrovandoci in una conversazione preziosa e piena di affascinanti retroscena. Il suo racconto – estremamente motivational – ci ha restituito un punto di vista inedito sul mondo della musica, lo sguardo poliedrico di un fotografo che in realtà è un artista dell’immagine che, nel corso degli anni, ha saputo letteralmente creare un ponte tra le arti.
1 – Vuoi raccontarci come è iniziata la tua carriera nella scena Rock, Punk e New Wave di New York?
Mi sono trasferito a Manhattan per imparare la professione fotografica. All’inizio avevo intenzione di diventare un fotografo ritrattista come Phillipe Halsman o Yousef Karsch di Ottawa, Canada. Mi ci è voluto un po’ di tempo per trovare lavoro come assistente fotografo ma alla fine sono riuscito ad iniziare a lavorare per due fotografi che mi lasciavano a disposizione il loro studio e tutta l’attrezzatura anche fuori l’orario di lavoro.
Iniziai a frequentare un jazz club in Brooklyn dove fotografavo i musicisti che si esibivano; donavo al club una grande stampa fotografica per ogni artista che mi davano la possibilità di fotografare e tutte queste cose venivano messe sulle pareti del club.
Inoltre lavoravo gratuitamente per l’Interview, il magazine di Andy Warhol. L’assistente dell’art director del magazine era mio amico e lui mi diede l’opportunità di lavorare fotografando le giovani modelle che indossavano le varie t-shirt che Andy vendeva.
Un giorno ricevetti la telefonata dal mio amico dell’Interview. Mi chiese se volevo andare al Max’s Kansas City, un famoso bar/ristorante e luogo di ritrovo per musicisti, per vedere l’esibizione di una band della Georgia. Dissi al mio amico che non avevo soldi e lui mi rispose che sarei stato nella lista degli invitati. Cos’è una lista degli invitati?, chiesi. Lui mi risposi che potevo entrare gratis. La band veniva da Athens, Georgia e la prima canzone che suonarono quella notte era Planet Claire e la musica era una copia stretta del “Peter Gunn Theme” da una serie tv a tema detective degli anni 50. Quella è stata la prima canzone che io abbia mai imparato a suonare con la chitarra: non sapevo accordare una chitarra, ma potevo supnare il Peter Gunn Theme su una corda sola.
Mi innamorai dei B-52’s. Chiesi loro di venire nello studio del mio capo così potevo fotografarli per Interview. Una delle ragazze della band non c’era, così chiesi alla loro manager di figurare al suo posto. Ancora nessuno sapeva che aspetto avesse la band e chi fossero i componenti! Successivamente incontrai in studio la formazione reale della band e scattammo alcune foto. Scelsi uno di questi scatti come poster con cui tappezzavo i palazzi attorno alle location dove la band si sarebbe esibita. Alla fine, quella foto divenne la loro e la mia prima copertina di un disco.
2 – In 30 anni di carriera hai accumulato una gradissima esperienza lavorativa. Puoi indicarci le differenze principali tra il lavoro come freelance e i progetti realizzato per la Island Records e per SPIN magazine?
Ho iniziato la mia carriera a New York lavorando in un’azienda tipografica. Ho imparato l’arte arcaica della composizione tipografica meccanica, del menabò, preparando disegni per la pubblicità stampata o per altri lavori di stampa. Dopo il mio apprendistato di 5 anni, ho fatto varie copertine discografiche per la Island Records, la prima etichetta dei B-52s. Tony Wright era l’art director dell’ufficio newyorkese della Island Records e mi chiese se volevo organizzare un dipartimento artistico e ingaggiare alcuni designer. Questo allargò il lavoro che stavo facendo. Ora, non solo incontravo gli artisti per discutere il concept alla base delle loro copertine, scattavo la foto e realizzavo il design finale. Ero l’emporio delle copertine dei dischi.
Quando lavoravo per la Island, una parte dei miei “affari” consisteva nel creare packaging per dischi di altre band con altre etichette discografiche purché io facessi questi lavori dopo le 18. Dunque il mio lavoro da freelance per Cold Chillin’, una primissima etichetta Hip Hop, veniva fatto dopo l’orario di lavoro per la Island.
Prima di avviare il dipartimento artistico alla Island, ero il photo editor presso la Image Bank, un’impresa di immagini in stock. Mi ingaggiarono per organizzare il loro archivio fotografico e selezionare foto per libri di lusso che volevano pubblicare. Cercavo nel loro archivio immagini relative alla Cina e sceglievo foto per libri sulla Cina, poi facemmo libri Alaska, Hawaii, corsi di golf, libri su qualunque cosa fosse presente negli archivi di immagini di Image Bank.
Successivamente divenni il primo direttore creativo di SPIN magazine, fondato da Bob Guccione Jr (nel 1985, n.d.r.). Tutto questo era prima dell’avvento dei computer nel design e, ad essere onesto, una rivista era un po’ troppo da gestire per me, così mi offrii volontario per diventare il photo editor. Decisi che il mercoledì era il giorno dedicato ai fotografi che volevano lavorare per SPIN, erano invitati a venire e a mostrarmi i loro book fotografici. Non volevo semplicemente che buttassero sul tavolo i loro portfolio… Dovevano mostrarmi le loro foto. Con loro discutevo spesso sul come rendere i loro scatti più interessanti per le riviste; alcuni giovani fotografi mi mostravano i loro scatti sporchi di polvere. Gli chiedevo “Chi si occuperà di ritoccare queste foto???“. Non io!
Spesso guardavo lo stile dei fotografi e assegnavo loro progetti che sapevo potevano realizzare, ma che poteva essere un po’ fuori dai loro schemi. Mi piaceva spingerli oltre la loro zona di comfort.
Non ho fatto molta fotografia per SPIN. Per lo più davo loro delle fotografie che avevo già scattato. Ci sono state delle occasioni in cui ho realizzato delle sessioni di scatto, specialmente se avevo un legame speciale con la band, come nel caso degli ZZ Top e dei REM.
3 – Quanto è importante la fotografia nel creare e definire l’iconicità di una band nell’immaginario collettivo?
Ai tempi del vinile, la copertina mostrava un buon ritratto dell’artista, qualche tipo di attitudine riconoscibile nello stile di vita dell’artista. Un fan riceve molto più di una sensazione circa le radici e la provenienza di un artista guardando la copertina e ascoltando la musica. Quanto il vinile è morto, mi sono consolato con il pensiero che… beh, il booklet di un cd può essere di 24 pagine! Questo significa un sacco di foto dell’artista. Il fotografo/art director può davvero raccontare una storia sull’artista o sulla band con 24 foto.
Al giorno d’oggi le band non pensano molto ad un concept per le loro copertine. Dopo tutto, in molti casi, le loro copertine sono ridotte a un’immagine di 25mm x 25mm che le persone possono vedere su iTunes con i loro smart phone. A volte non c’è nessun packaging o prodotto fisico. Resta solo digitale.
I ragazzini di oggi molto spesso non hanno mai ascoltato una registrazione in vinile. Tutto ciò che conoscono sono gli mp3. Se compari il suono di un mp3 con un disco di vinile, beh, semplicemente non c’è paragone con la qualità e la gamma che il vinile cattura.
4 – Hai realizzato molte copertine per gli album dei Ramones e hai seguito la band per molti anni come fotografo ufficiale. Le tue foto hanno contribuito a creare quell’attitudine underground che è l’anima della band, quell’energia che ci raggiunge tutt’ora e che ha reso i Ramones sempre attuali e indimenticabili allo stesso tempo. Ti va di raccontarci del tuo lavoro con il gruppo?
Partiamo da Tony Wright, art director della Island Records, anche freelance. Lui disegnò il primo album dei B-52’s con la mia foto. Lui mi ha dato la possibilità di fotografare Lydia Lunch, Kid Creole and the Coconuts e altre band. Il manager dei B-52’s era anche il manager dei Ramones. Tony ricevette l’incarico di creare la copertina per Subterranean Jungle e mi ingaggiò come fotografo. E’ una storia lunga che racconto dettagliatamente nel mio libro fotografico sui Ramones.
L’anno successivo, Johnny Ramone mi chiamò e mi chiese se volevo realizzare un’altra copertina per loro, ma io conoscevo un altro art director all’infuori di Tony? “Cosa c’è che non va con Tony“, chiesi. Johnny mi rispose che “I graffiti sul treno della metropolitana che è stato usato per la copertina di Subterranean Jungle sembra finto“. Gli dissi di dare a Tony un’altra possibilità, che lui avrebbe fatto qualunque cosa la band avesse preferito. Così io e Tony realizzammo la copertina per Too Tough To Die, una delle copertine più iconiche tra quelle dei Ramones.
Ancora un anno dopo, Johnny mi chiese di realizzare un’altra copertina per l’album successivo. Questa volta mi disse che volevano io vi scrivessi sopra a mano… Mmmh. Tony mi diede l’occasione di realizzare la mia prima copertina per i Ramones, io diedi a Tony la possibilità di lavorare con me in Too Tough To Die, dunque nella mia testa mi dissi che lo avevo ripagato per la possibilità da lui offertami, così realizzai la copertina di Animal Boy tutta da solo.
Più lavoravo con i Ramones, più venivano fuori i contenuti concettuali per le copertine. Potevo realizzare le loro idee e loro apprezzavano le mie. Tutto questo unito al fatto che i Ramones odiavano i photoshooting – o quantomeno Johnny li odiava – e io fotografavo rapidamente, senza trafficare con le luci per ore. A volte strutturavo cinque set in studio e in due ore la band riusciva ad avere tutte le press-photo pronte per la pubblicità dell’album di prossima uscita.
5 – Quest’anno è il 40esimo anniversario dalla pubblicazione del primo album dei Ramones e tu hai curato una mostra itinerante, 2016 All-Ramones Pop Up Photography Exhibition, che questo sabato sarà presentata all’Orion Club di Roma. Qual è il concept della mostra?
Due anni fa, Jörg Büscher ha organizzato un evento di beneficenza per raccogliere fondi per la lotta contro il cancro. L’evento si intitolava Beat on Cancer. C’erano varie tribute band dei Ramones in questo spettacolo a Düsseldorf. In quell’occasione organizzai una mostra fotografica con quaranta delle mie foto dei Ramones in formato A2, erano stampe con i margini strappati che tappezzavano le pareti della location. A metà evento mi accorsi che molte foto mancavano dalle pareti, così andai dal ragazzo della sicurezza e gli chiesi chi stesse rubando le mie foto. “Keine Ahnung!” rispose, “Non ne ho idea!“. Così, nello stesso spirito dello “Steal This Book” di Abbie Hoffman – un libro scritto nel periodo hippy degli anni ’60 – mi dissi “se non puoi batterli, fatteli amici“. Quell’esperienza mi ha portato a questa mostra attuale: ho raccolto sei foto da ciascuno dei vari fotografi che lavorarono con i Ramones dagli esordi, ho messo assieme settanta foto stampate su carta economica con inchiostro non-archival e bordi strappati, con cui costellare le pareti del club dove si terrà l’evento. L’idea è quella di mostrare queste immagini ai fan più giovani, che magari hanno le magliette e alcuni cd, ma non hanno mai visto i Ramones in concerto e non conoscono molte delle foto esposte. Anche in questo caso, non sarò comunque in grado di impedire loro di portare via le stampe…
6 – Il tuo libro fotografico sui Ramones si intitola Parlo musica – Ramones; parlare musica suggerisce l’idea che la musica è un linguaggio ed è molto interessante la sinestesia sottointesa tra musica e fotografia. Pensi che le immagini sono più vere delle parole quando devi parlare di musica?
Per me, “parlo musica” significa che riesco a capire differenti stili musicali e che cerco di collegarmi sempre con gli artisti e la loro musica. Quando inizio a mettere in piedi un progetto, devo sempre prima ascoltare la musica e incontrare l’artista faccia a faccia. Non creo copertine per me stesso. Le copertine non sono per me, sono per i musicisti. Il mio obiettivo è creare una copertina che appaia esternamente come la musica suona dentro l’album. Lo stile della copertina deve calzare la musica che racchiude. Voglio che il potenziale acquirente di quella musica prenda quella copertina perché sembra cool e lo connette con il materiale musicale che troverà dentro. Una volta che il cliente tiene in mano il tuo packaging, è a metà strada dal comprarlo… E la foto giusta dirà migliaia di parole sulla musica e sul musicista.
In copertina: The Ramones – Subterranean Jungle ©George-DuBose.com