IDEE, REALTÀ, IMMAGINI. LA CAVERNA DEGLI IDOLI DA PLATONE A INGMAR BERGMAN

di Jamila Campagna

«[…] Gli chiederemo: “Caro Omero, se è vero che in quanto a virtù non sei terzo a partire dalla verità, se cioè non sei quell’artigiano di una copia che abbiamo definito imitatore, e se è vero invece che vieni al secondo posto e che sei riuscito a conoscere quali occupazioni rendono migliori o peggiori gli uomini in privato o in pubblico, dicci quale Stato per merito tuo ha ottenuto un governo migliore […] Dì quale Stato ti riconosce il merito di aver agito da buon legislatore e fatto l’utile dei suoi cittadini. Italia e Sicilia lo riconoscono a Caronda e noi a Solone, ma a te chi?” Potrà citarne qualcuno?».
(Platone, La Repubblica, I sec. a.C.)

Sono intercorsi almeno sei secoli tra il tempo di Omero e quello di Platone quando quest’ultimo si rivolge al poeta epico per definire le ragioni per cui tutta l’arte sia nociva in quanto rappresentativa, perché, essendo basata sulla percezione, è soggettiva e, dunque, dà luogo alle opinioni, incostanti, variabili, lontanissime da ciò che è. Così Platone incalza suo fratello Glaucone per sottolineare la presunta inutilità della poesia così come di tutte le arti imitatorie che, nel riprodurre l’immagine di una realtà che è già la copia dell’idea ad essa sottesa, finiscono per allontanare l’individuo dalla conoscenza dell’essere in quanto tale, dell’assoluto.

I sensi e le percezioni che da essi si traggono allontanerebbero, secondo Platone, dall’intelligibile, dalle idee che sono l’essere della realtà. Su questa posizione si basa interamente il cosìdetto mito della caverna degli idoli, descritto nel settimo libro de La Repubblica. Platone immagina l’esistenza di una caverna sotterranea, buia, che raccoglie un gruppo di uomini incatenati, costretti a tenere lo sguardo rivolto sulla parete di fondo, senza poter mai girare la testa, né per guardare alle proprie spalle, né per interloquire con i propri compagni. In questo stato di reclusione, il gruppo di uomini osserva persistentemente il passaggio di una serie di sagome proiettate sulla parete della caverna. Fuori dalla caverna sta l’artificio generatore delle ombre che i prigionieri considerano realtà: un fuoco è posto su un muretto di fronte al quale passano delle persone recanti in mano oggetti di varie forme che riproducono elementi del reale. Le sagome proiettate sono quindi riproduzioni di riproduzioni. Platone immagina inoltre che uno di questi uomini incatenati possa liberarsi e avere via d’uscita dalla caverna. È il filosofo che solo può distaccarsi dagli altri per iniziare una ricerca dell’assoluto (epistéme). Una volta fuori, il meccanismo proiettivo è svelato; quando il filosofo torna nella grotta, per parlare del mondo esterno con i suoi vecchi compagni, si ritrova deriso perché la luce del sole gli ha rovinato la vista e ora non riesce più a distinguere nulla nella penombra reclusiva.

Ciò che Platone omette di dire è quel che il filosofo racconta della caverna a chi vive in città, a chi non conosce cosa sia la proiezione e percepisce il reale nel suo mero attuarsi, fattivo e cronologico, avendo comunque difficilissimo accesso al mondo delle idee.
Il saggio, il filosofo e, per estensione, l’artista, in quanto ricercatore, in questo suo fare avanti e indietro tra la caverna e l’esterno, in questo suo scansionare l’universo delle cose in tre nature (le idee, la realtà simulacrale e la rappresentazione di quest’ultima, cui Platone si riferisce come imitazione della copia) è figura medianica tra chi non sa interpretare la realtà perché non ne afferra il testo e non sa distaccarsene con l’attività speculativa e chi resta smarrito perché di fronte alla rappresentazione non sa ricondurla al referente.
Mentre Platone cerca l’universale (l’unità) nel molteplice, divide tutto in due, le cose della ragione da quelle dei sensi, le cose del corpo da quelle dell’anima, arrivando a dividere per tre le cose del mondo, come dicevamo, idee, realtà e rappresentazione.
Alla ricerca dell’uno, sbriciola tutto suggerendo piuttosto l’impossibilità di un approccio conoscitivo all’esistenza che possa essere esaustivo e completo, ancor più perché individua separazioni anche dove ontologicamente non ce ne sono, fino ad arrivare a contraddirsi in termini: Platone definisce il ciò che è del reale inserendolo nella dimensione dell’intelligibilità – la trasparenza dell’essere al pensiero – ma lo chiama idea o eidos, parole che indicano propriamente l’aspetto, la forma, l’immagine di una cosa. Gli riesce difatti impossibile indicare la materia del pensiero al di fuori di quella dei sensi, ritrovandosi a usare la metafora del vedere come evento di conoscenza concettuale, dicendo che l’essere, quando si rende conoscibile, è dato come forma.
Dalla ricerca dell’unità nel molteplice, l’arte procede in verso opposto cercando il molteplice nell’unità.

Il cinema dopo aver catturato la realtà come luce riflessa, la smaterializza nel fascio di luce della proiezione, la prende e la trasmuta nel medium stesso, mantenendo una forte suggestione nel legame tra referente reale e rappresentazione; il cinema, Armageddon di tutte le arti, ha ricompreso sulla stessa traccia la parola, la scrittura, l’immagine, il suono, la performatività. È una caverna degli idoli attuata su un’inversione di sistema: nel buio della sala, il fascio di luce che raggiunge lo schermo è portatore di un discorso di speculazione e rivelazione dell’essenza del reale.
Venti secoli dopo, voglio immaginare un Ingmar Bergman interlocutore critico di Platone, che non sia solo un mero espediente dell’esposizione di una tesi come lo è Glaucone ne La Repubblica.
Platone individua nell’anima contemplativa il mezzo per la conoscenza dell’essere «con conseguente rimozione del corpo in quanto espressione del particolare e dell’instabile su cui è impossibile fondare qualcosa di universale e di immutabile […]»[1]. Bergman, in una concezione diametralmente opposta, riconduce l’anima alla corporalità, nell’immagine, nata nei suoi giorni di bambino, di un drago volante color carta da zucchero, il cui interno è completamente rosso.[2]

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Rosso come le pareti di tutti gli interni di Sussurri e grida (1972): Karin e Maria, due sorelle, tornano nella casa materna dove vive Agnes, terza sorella afflitta da una malattia degenerativa che la sta consumando, tra momenti di lucidità e tormento. La condizione di malattia in cui è incastrata Agnes è simbolica di quel distacco dalle cose del mondo necessario per comprendere le cose del mondo, quasi fosse impossibile vivere e comprendere la vita al contempo. Ai limiti della vita, con un corpo dolente e dolorabile, Agnes osserva le sorelle e ricostruisce per mezzo della scrittura un’identità familiare e la memoria di un vissuto condiviso. Karin e Maria, costrette a rincontrarsi nella circostanza drammatica, si affrontano e definiscono l’una in relazione all’altra. Le gelosie, le invidie, le frustrazioni, le offese ingoiate negli anni tanto quanto l’affettività, riaffiorano sotto forma di incapacità di ascoltare e di ascoltarsi, di raccontare e raccontarsi.
In una fotografia alternativamente chiara e tersa o incassata e crepuscolare[3], il vuoto atroce di comunicazione e comprensione, rincorso e smarginato dal rosso gremboidale e organico che invade le pareti della casa, arriva a gonfiarsi nello scontro rabbioso tra le due sorelle ospiti.

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Interposti ai primi piani autosignificanti, gli oggetti riempiono di dettagli la scena, cadono, vengono raccolti, si rompono, diventano proiettivi di identità; la vita accade addosso a Karin e Maria, che quasi la subiscono, fino a compiersi inesorabile nell’aggravarsi della malattia di Agnes, le cui grida di sofferenza arrivano a essere l’unica cosa udibile nei saloni della casa alto-borghese, che sembrano iperbolizzarsi o comprimersi assecondando gli stati ossessivi in cui le sorelle, assieme alla governante, lentamente, vanno sempre più a scivolare.
Così, se è vero che, sarcasticamente, la prima causa di morte è la vita, Agnes è tanto profondamente immersa nei tormenti del vivibile da sapersene estrarre nella pratica letteraria intimistica del diario. Nel suo diario la vita si frammenta in parole e si ri-struttura in frasi, pagina dopo pagina, alla ricerca di un significato che sia epifanico e terreno senza contraddizioni, perché sintetico e totale, risolutivo. Agnes interpreta e comprende la vita perché, scrivendone la storia, la trasmuta in rappresentazione. Agnes è il filosofo che entra ed esce dalla caverna, nel suo andirivieni tra la camera da letto e le righe della scrittura. Lei è il terzo livello che risolve la realtà e l’idea.

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In una società occidentale dove il maschile è simbolo del generico e del generale, fin dentro il piano linguistico, Bergman assurge la figura della donna come simbolo del particolare che dà accesso all’universale. Nella scenografia attenta ai più piccoli dettagli, nella direzione precisa di gesti e posture, nella messinscena delle dinamiche interne e familiari e nella regia della sfera privata, la rappresentazione scarta la realtà come un pacco e soddisfa il raggiungimento di un significato assoluto.
Nella figura della donna Bergman individua l’intera gamma dell’umano, nel suo sentire, nel suo agire, nel suo pensare. La sua non è una posizione di genere ma una scelta ontologica: la prismaticità dello sguardo ermeneutico e artistico, soggettivo e rappresentativo, trova il suo corrispondente nella prismaticità affettiva, nelle piccole cose della quotidianità, dove il corpo è interfaccia relazionale. Bergman non cerca l’unico e generale, che resterebbe sempre indistinto e indistinguibile, ma insegue il molteplice e individuale, conoscibile perché è nella differenza che si rintraccia la misura e l’identificazione. Là si trova il senso dell’esistenza e, accanto ad esso, l’assoluto, l’universale che altro non è che la somma del particolare.

«[…] il cinema è per me un’illusione progettata nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo più mi appare illusoria.»
(I. Bergman, Lanterna magica, 1988)

Bibliografia

I. Bergman, Immagini, Garzanti Libri, Milano 200
I. Bergman, La Lanterna magica, Garzanti Libri, Milano, 200
U. Galimberti, Psiche e Techne, L’uomo dell’età nella tecnica, Feltrinelli editore, Milano 2011
J. Lacan, Scritti, Einaudi editore, Torino 2002
J. Lacan, Altri scritti, Einaudi editore, Torino 2013
Platone, La Repubblica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2011
E. Severino, La Filosofia dai Greci al nostro tempo – La filosofia antica e medievale, RCS Libri, Milano 2004
E. Wind, Arte e Anarchia, Adelphi, Milano 1997

[1] U. Galimberti, Psiche e Techne, L’uomo dell’età nella tecnica, Feltrinelli editore, Milano 2011, pag. 125.

[2] I. Bergman, Immagini, Garzanti Libri, Milano 2009.

[3] Il direttore della fotografia in Sussurri e grida è Sven Nykvist.

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